L’uomo sentimentale – Di sonno e di veglia
Mia cara R,
ti scrivo di getto, a perdifiato, e ti scrivo per non pensare o per pensare soltanto a te (per assolvere alla tua richiesta: “Scriviamoci più spesso, ti prego”) e per annullare la distanza, per fare un altro passo – che equivale a un capitolo – all’interno di questo libro che stiamo in qualche modo riscrivendo, non ripetendo ma riscrivendo: L’uomo sentimentale di R. e di G. E non mi meraviglierei se nel prosieguo del romanzo di Javier Marías, a un certo punto, nel sogno che il Leone di Napoli ci racconta – o racconta a sé stesso – aggiungendo sempre particolari come se pian piano focalizasse meglio questa scena madre che l’inconscio ha rilasciato mentre egli dormiva, apparissimo io e te, magari confusi, indefiniti, senza un nome e un volto: R. e G., appunto. Perché ora il nostro protagonista ci confida che nel sogno fatto al mattino, oltre a Dato, Natalia Manur e al signor Manur, gli è apparsa anche Berta. Non Berta Isla, bada bene, ma la donna con la quale conviveva quattro anni prima. Senso di colpa, si direbbe, giacché due settimane prima del sogno, il Leone di Napoli ci dice che gli era giunta una lettera – «una lettera disgustante, accurata e contorta» – nella quale “un tale”, il cui nome cominciava con la N – Noriega o Navarro o Noguer – lo informava della morte della sua ex. Una morte “ridicola”. Una morte che un po’ ricorda quanto accade in Domani nella battaglia pensa a me. Berta infatti è morta nel letto nuziale – qui però nel sonno – ed è morta accanto a questo N, il quale nella lettera dice di essere il marito di Berta, ovvero l’uomo che era stato al suo fianco per quelli che si sarebbero poi rivelati essere gli ultimi diciotto mesi della sua vita.
Pensando di fare cosa gradita al Leone di Napoli, questo Norega o Navarro o Noguer gli racconta come undici giorni prima Berta fosse caduta dalle scale, avesse vomitato sangue e come fosse subito stato chiamato un medico che però aveva minimizzato, e tutto sembrava essersi risolto finché nove giorni dopo la donna era morta. Morta mentre questo signor N dormiva incurante al suo fianco, accorgendosene soltanto il mattino dopo quando, svegliandosi – «alle sette e mezza, per andare a lavoro» – l’aveva vista rannicchiata nel letto, con la camicia da notte tutta aggrovigliata e «con uno scarabocchio di sangue coagulato a metà che ancora scorreva dalle labbra socchiuse e impallidite».
Cara Rossella, nota quanto questo signor N sia subdolo: scrive una frase che il Leone di Napoli ricorda bene – egli non ha trattenuto nella memoria il nome esatto del marito di Berta ma gli sono rimasti impressi interi brani della sua lettera. N ci tiene a far sapere che Berta è caduta dalle scale «mentre le scendeva carica di libri suoi che ancora conservava dal tempo del vostro impegno di convivenza». Vale a dire che insinua nel nostro protagonista la responsabilità di quanto accaduto. È per colpa tua e dei tuoi libri se Berta è caduta!, sembra volergli dire, ponendo poi l’accento sul “vostro impegno di convivenza”, quasi a rimproverare al Leone di Napoli di avere infranto quel patto (in nome del quale Berta è invece morta). Ed è curioso che questo rimprovero, nota il nostro protagonista, venga proprio dallo stesso uomo che non è stato in grado di proteggere Berta. Proteggerla e vegliarla, guardarle le spalle, curarsi del sonno di lei affinché durante quelle ore di abbandono non le accadesse nulla. Perché è chiaro come il Leone di Napoli qui si tormenti e si rammarichi per la morte di Berta, una “morte riservata” che non avrebbe mai potuto accaderle mentre viveva con lui.
Sembra di leggere Domani nella battaglia pensa a me o anche Un cuore così bianco quando si dice: «È il petto di un’altra persona a spalleggiarci, ci sentiamo realmente spalleggiati solo quando abbiamo qualcuno dietro, lo dice la parola stessa, alle nostre spalle, come in inglese, to back, qualcuno che forse non vediamo e che ci copre le spalle con il petto che è sul punto di sfiorarci e finisce sempre per sfiorarci, e a volte questo qualcuno ci mette una mano sulla spalla per tranquillizzarci e allo stesso tempo per sottometterci».
E a proposito di Un cuore così bianco: è vero, ce l’ho io! È su uno scaffale, insieme ad altri libri tuoi che, dopo aver letto queste pagine, mi guardo bene dallo spostare, sebbene io e te non siamo uniti da nessun impegno o vincolo di convivenza né lo siamo mai stati. Però, a questo punto, se io e te dovessimo finire nel sogno del Leone di Napoli, io mi preoccuperei, perché è ormai evidente come molti dei volti sognati da quest’uomo non siano più in vita («I dormienti, e i morti, non sono che figure dipinte» dice Lady Macbeth, come ci viene ricordato sempre in Un cuore così bianco).
E insomma, non sarebbe di buon auspicio se tra due capitoli il Leone di Napoli dovesse ricordarsi di come, quattro anni prima, magari dopo aver lasciato Madrid, fosse passato a Frosinone o a Perugia o a Roma e avesse incontrato un certo G., che infatti gli era apparso anche lui in sogno quel mattino, con la sigaretta in bocca, la barba, il volto un po’ incupito: meglio evitare che accada e meglio che io compaia soltanto nei tuoi sogni e tu nei miei, senza intermediari, chiunque essi siano: Marías o il Leone di Napoli. Fare in modo che io e te dormiamo sonni tranquilli, questo è l’importante, anche se io non ho nessuno che vegli sul mio sonno, a parte me stesso: e infatti ogni tanto mi sveglio per verificare che tutto sia a posto. Mi guardo le spalle da solo grazie a uno specchio che ho montato sul muro e verso il quale guardo prima di addormentarmi. Di notte. Perché io mi addormento tardi, e soltanto di notte, sapendo che invece c’è chi si addormenta anche di pomeriggio risvegliandosi poi più tardi, sempre lo stesso giorno con due risvegli, uno riflesso nell’altro. Uno contenuto nell’altro. Non so più come possa essere questa sensazione, non dormendo più di pomeriggio dai tempi in cui ero ragazzo. Forse, chissà, non ci si risveglia del tutto. O meglio: ci si risveglia in un altro sogno, si vive una vita inconscia, si aprono porte e porte per poi infine fare ritorno nel proprio sonno e corpo adagiato nel letto e aderirvi di nuovo. Sempre che uno riesca a trovarsi. A separare, cioè, il mondo della veglia da quello del sonno. Perché è evidente come qui il Leone di Napoli non sia in grado di farlo: per quattro anni non ha pensato, perdendo, così, il contatto con sé stesso e adesso che ha deciso di riprendere il filo della sua vita, non sa più distinguere tra quel che è accaduto veramente e il sogno di quel che è accaduto.
E a proposito di sogni, di porte che si aprono, del viaggio a ritroso dalla luce all’oscurità che forse tutti noi facciamo per riappropriarci del nostro corpo addormentato, ti lascio con Daydreaming dei Radiohead.
Tuo G.