“Dalle finestre di questa casa si vede il nulla. Soprattutto d’inverno: le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto…”: i lettori di Sebastiano Vassalli hanno riconosciuto il celebre incipit della Chimera, long seller amato anche per come il suo autore racconta il paesaggio. Questo protagonista vivo e corale torna con fedeltà nelle opere dello scrittore fino al recente romanzo Le due chiese: senza sentimentalismi estetici o localistici, ma come paradigma di una complessa trasformazione della società e dell’uomo. Dal Seicento rurale e ingiusto della giovane Antonia, accusata di stregoneria, alla società automatizzata di oggi, lo sguardo dello scrittore mette a fuoco i suoi personaggi entro un palcoscenico di pianura, che appare un non-luogo, perché “le vicende umane, grandi e piccole, sembrano essere scivolate senza lasciare una traccia durevole di parole”. A darci un senso restano le storie, perché ci orientano nella città e nel paesaggio ricercando e ricomponendo l’immagine interiore di una patria che è innanzi tutto linguaggio, sempre al centro del discorso dello scrittore. Secondo Vassalli, che quest’anno festeggia settant’anni, “bisogna saper raccontare tutto: anche un albero, una casa, e quindi un paesaggio… un paesaggio dotato di vita e direi quasi di volontà”. In questo testo inedito, che dalle scenografiche coste greche di Omero ci porta alla devastata Brianza sudamericana di Gadda, tratto da una lectio magistralis pronunciata al teatro Bibiena di Mantova il 25 novembre 2010 (inaugurando il dottorato del Politecnico lombardo in Progetti e tecnologie per la valorizzazione dei beni culturali), Vassalli ci ricorda che l’uomo non può considerarsi al centro di tutto, perché “un orizzonte esclusivamente umano non sarebbe sopportabile”. Perciò il nostro “viaggiatore nel tempo”, come si definisce nell’intervista-autobiografia Un nulla pieno di storie, continua la sua ricerca di storie che sappiano sventare quel nulla presente nell’apertura della Chimera: “Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla…” (Roberto Cicala)
L’idea di paesaggio nasce tardi, nella cultura occidentale e, credo, in tutte le culture umane. Per l’uomo delle origini, ciò che noi oggi chiamiamo paesaggio è un insieme di oggetti, fermi o in movimento, ognuno dei quali rappresenta un potenziale pericolo in cui possono irrompere o inserirsi elementi ostili. È un insieme di forze naturali mosse da una volontà soprannaturale, che tende a dominare l’uomo e a cui l’uomo, nei limiti del possibile, cerca di adattarsi. La parola greca fúsis: natura, indica un pullulare di presenze vive, ognuna delle quali ha un nome e una caratteristica divina. È l’esatto contrario di quel mondo statico e apparentemente privo di difese che è diventato, in buona parte, il paesaggio di oggi. La natura delle origini è un luogo magico, in cui bisogna entrare in punta di piedi anche quando nulla, apparentemente, ci minaccia: stando bene attenti a non turbarne i più remoti equilibri e chiamando per nome ad una ad una, per rendercele amiche, le divinità che lo compongono.
Così è per i Greci e per gli Etruschi e così è anche per gli antichi Romani, che però incominceranno a trattare la questione in modo più realistico e a impratichirsi della geografia dei luoghi, soprattutto per ragioni militari. Il latino di Cesare e di Cicerone non ha parole per indicare il paesaggio: ha delle espressioni composte (situs loci, situs regionis, situs terrarum) che indicano l’assetto di un luogo o di una regione, le sue componenti geografiche; se vuole sottolinearne le bellezze naturali, ma siamo già in età imperiale, parla di amoenitates locorum. La parola italiana paesaggio (e i suoi equivalenti nelle principali lingue europee: il francese paysage da cui l’italiano deriva, l’inglese landscape, il tedesco Landschaft lo spagnolo paesaje) nascono tardi, e conservano tutte un’ambiguità di fondo tra le due componenti semantiche, quella naturalistico-ambientale e quella estetica. Sono parole complesse, parole con due anime.
Nella lingua italiana la parola paesaggio è documentata a partire dal Rinascimento e dal XVI secolo, cioè all’incirca con duecento anni di ritardo rispetto ai paesaggi dipinti da Pietro e Ambrogio Lorenzetti nel palazzo civico di Siena, e a quelli descritti da Boccaccio nel Decameron. Secondo il Nuovo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, paesaggio è: a) Complesso di tutte le fattezze sensibili di una località; b) Panorama, aspetto tipico di una regione ricca di bellezze naturali. Secondo il Dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli, paesaggio è una «porzione di territorio considerata dal punto di vista prospettico o descrittivo, per lo più con un senso affettivo cui può più o meno associarsi anche un’esigenza di ordine artistico ed estetico». Infine, secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia, paesaggio è: a) Ciò che un osservatore, fermo o in movimento, può vedere dei luoghi che lo circondano con uno sguardo complessivo dal punto di vista in cui si trova in un determinato momento o via via si colloca. b) Ambiente naturale proprio di un luogo. Ciò che risulta da tutte queste definizioni (e se ne potrebbero aggiungere altre) è la compresenza e direi quasi il contrasto tra valutazione ambientale e valutazione estetica. Il paesaggio: la nostra idea di paesaggio, è anche questo.
Se ora, dopo queste divagazioni lessicali, ritorniamo alle considerazioni da cui eravamo partiti, cioè all’idea di paesaggio e alla sua origine, dobbiamo dire che ciò che noi oggi chiamiamo con questo nome, nella letteratura più antica è di fatto assente. Lì, il paesaggio coincide con la natura e con la religione, è Dio o l’opera di Dio. Naturalmente questa affermazione si riferisce a un’area geografica e culturale dai contorni abbastanza facilmente definibili, quella della civiltà che noi chiamiamo “occidentale”: è qui che l’idea di paesaggio prenderà poi forma, ed è qui che il distacco dell’uomo dalla natura e da Dio porterà al dominio dell’uomo sulla natura (e probabilmente anche su Dio). Allargare il nostro orizzonte ad altre culture ci porterebbe su un terreno di riflessione certamente più vasto e però non servirebbe poi molto per capire il mondo com’è oggi. Al di là delle tante cose che si possono dire, infatti, e al di là anche di tutte le buone intenzioni possibili, il modello vincente nel presente, nel rapporto uomo-natura e quindi anche uomo-paesaggio, è il modello occidentale, del dominio dell’uomo sulla natura e dello sfruttamento illimitato di tutte le sue risorse. Ci piaccia o no è da lì, e dalla letteratura dei paesi che conosciamo meglio, che dobbiamo partire.
La letteratura occidentale nasce nella notte dei tempi, di qua e di là del mare Mediterraneo. Nasce in Palestina con il Pentateuco, che è l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia attribuiti a Mosè (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio); e nasce in Grecia con i poemi omerici: l’Iliade e l’Odissea. Attribuire delle date a questi esordi sarebbe, oltre che arbitrario, anche molto difficile. Non ci sono prove certe dell’esistenza di Omero e nemmeno di quella di Mosè. Il leggendario fondatore della nazione di Israele, secondo calcoli basati sulle nostre attuali conoscenze, dovrebbe essere vissuto nel XIII secolo prima dell’era volgare; ma è difficile credere ciò che la religione vuole imporci di credere, che i cinque libri del Pentateuco siano opera di un’unica persona, cioè sua, e che siano più o meno contemporanei tra loro. In realtà, quei testi presentano caratteristiche diverse, anche nel linguaggio, e appartengono a un’epoca certamente posteriore rispetto a quella in cui sarebbe vissuto il personaggio Mosè. Come anche ci inducono a credere alcuni riferimenti al ferro e alla civiltà del ferro, che dovette giungere in quei luoghi intorno all’anno Mille avanti Cristo.
Allo stesso modo, possiamo dire di Omero. È assai difficile attribuire a un’unica persona i due poemi che ci sono stati tramandati con il suo nome, e che anche al loro interno presentano caratteristiche diverse. Il loro autore, il leggendario cantore cieco che vagava per le città della Grecia vivendo della sua arte e rallegrando i suoi contemporanei con le storie delle epoche precedenti alla loro, dovrebbe essere vissuto tra il IX e l’VIII secolo prima dell’era volgare; ma i suoi temi narrativi e i suoi poemi quasi certamente appartengono a una tradizione più antica, e come i testi del Pentateuco possono essere ascritti a un’epoca di transizione tra l’età del bronzo e quella del ferro. Più o meno, alla stessa epoca.
Queste sono le colonne portanti della nostra letteratura, i due pilastri su cui si regge tutto ciò che è venuto dopo. Se ora ce ne occupiamo dal punto di vista del tema della nostra riflessione, ci rendiamo conto che né nel Pentateuco, né nei poemi omerici ci sono paesaggi, nel significato che noi oggi attribuiamo a questa parola; ma vediamo che ci sono descrizioni di luoghi, di ambienti e di atmosfere che preludono alla nascita del paesaggio moderno, secondo due punti di vista così diversi, da essere praticamente opposti. Mentre nel Pentateuco, infatti, a parlare è l’autore Mosè, o è direttamente il Dio unico degli Ebrei, l’impronunciabile Yhwh, che si rivolge al lettore attraverso di lui, nei poemi omerici tutto parla, e l’ambiente che circonda gli uomini si costruisce in questa pluralità di voci, e addirittura partecipa alle loro vicende. Facciamo un paio di esempi. Prendiamo, anzitutto, una pagina della Bibbia: quella del Deuteronomio (8,7-16) dove Mosè mostra al popolo d’Israele la terra che Dio gli ha promesso. Dice Mosè: «Il Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile: paese di torrenti, di fonti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di olio e di miele; paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame […]». Più avanti, le meraviglie della terra promessa vengono confrontate con i territori che il popolo eletto ha dovuto attraversare, con «il deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assolata, senz’acqua»; eccetera. C’è un embrione di paesaggio in questi elenchi e in queste descrizioni; c’è un paesaggio visto da fuori, dall’esterno: un paesaggio come potrebbe descriverlo un agente immobiliare. Dio sta fuori dal paesaggio e lo mostra al popolo dei suoi fedeli, come un venditore potrebbe mostrarlo ai clienti. Al contrario, nei poemi omerici, Dio è dentro ogni particolare del paesaggio: è un pulviscolo di particolari, di caratteri, di eventi che non riescono quasi mai a unirsi in una visione d’insieme. È l’aurora dalle dita di rosa, è l’ombra che copre tutte le strade al calar del giorno, è il mare purpureo gremito di pesci, è la forza che aduna le nubi in vista del temporale… Ognuno di questi dettagli ha il nome di una divinità: è Zeus, è Poseidone, è Eos, è una Ninfa. Anche là dove la natura assume forme più complesse e articolate, c’è sempre nella narrazione un’intenzione simbolica, che prelude al disvelarsi della volontà divina o al compiersi di qualcosa che era scritto nel libro del destino. Così è, per esempio, nel V canto dell’Odissea, dove si descrive la grotta della ninfa Calipso. E così è nel canto XXII dell’Iliade, nella descrizione delle due fontane che in qualche modo prefigura il duello tra Achille ed Ettore e precede la morte di quest’ultimo: «Davanti al posto di guardia, al caprifico battuto dai venti, sempre lungo le mura, divoravano la strada, e giunsero alle due belle fonti: emerge in quel luogo una duplice vena dello Scamandro vorticoso. L’una versa acqua calda, e fumo tutto all’intorno s’alza da lei come da fuoco che arda; l’altra, anche d’estate, scorre fredda come la grandine, come gelida neve o acqua ghiacciata. Lì stanno a ridosso delle fonti due comode vasche belle, tutte di pietra, dove le vesti preziose lavavano le mogli e le belle figlie dei Troiani […]».
Così, dunque, tra età del bronzo ed età del ferro, nasce nella civiltà occidentale il paesaggio, che poi si svilupperà in modo coerente alle sue origini secondo due diverse prospettive, una esterna e l’altra interna rispetto alle cose descritte. E così nascono, di qua e di là del Mediterraneo, una letteratura degli eventi e una letteratura dei sentimenti non più strettamente collegate alla religione. Anche nella letteratura greca, e poi in quella romana, gli dei incominceranno ad agire fuori della natura, che pure continuerà a essere una loro emanazione, e assisteranno alle vicende umane senza intervenire direttamente. La natura e il paesaggio diventeranno le quinte di una rappresentazione teatrale, legata alle storie degli uomini… Mentre il Dio unico della Bibbia, l’impronunciabile Yhwh, in un percorso opposto e simmetrico finirà in qualche misura per immedesimarsi nelle vicende umane, assecondandole o contrastandole.
Naturalmente siamo ancora lontani dalla terminologia moderna, che a proposito della letteratura e delle arti figurative parla di classicismo e di romanticismo, come termini opposti e contrapposti: ma forse, anzi probabilmente, l’origine remota di ciò che questi termini indicano è nella contrapposizione di cui sopra, tra una prospettiva esterna e un’altra, per così dire, interna a ciò che viene descritto. Tra un ambiente indifferente alle vicende umane e una natura che in qualche modo si sforza di assecondarle e sembra voler prendervi parte. Il paesaggio che assiste agli eventi e vi fa da sfondo; il paesaggio come quinta teatrale immobile continua ad essere presente nella letteratura greca e latina, ed è presente anche nelle arti figurative in un arco temporale che va dalle tombe etrusche ai mosaici bizantini, all’arte medioevale di Giotto e dei suoi seguaci, fin quasi alle soglie del Rinascimento. Dal punto di vista della letteratura, però, l’evoluzione più importante è quella del paesaggio che partecipa alle vicende umane, e che già in qualche misura è presente in Omero. C’è un filo abbastanza visibile e anche abbastanza robusto, che unisce tra loro opere ed epoche lontanissime e diversissime: un filo che collega le fonti dello Scamandro nell’Iliade alle «lacrimae rerum» di Virgilio e alla malinconia della natura nell’Eneide. Un filo che collega la poesia greca delle origini con la grande letteratura romantica dei secoli XVIII e XIX; i monti di Alcmane, che di notte “dormono” nella bella traduzione di Salvatore Quasimodo, con l’“addio ai monti” di Manzoni e con il “male di vivere” di Montale: «era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato».
Ho parlato prima, con un azzardo forse eccessivo, di classicismo e di romanticismo, per indicare i due modi che l’arte e la letteratura hanno avuto nel corso dei secoli, di porsi di fronte alla natura e quindi al paesaggio, considerandoli estranei alle vicende umane o partecipi delle stesse, a cui sarebbero legati (in questo secondo caso) da misteriose affinità. Tra questi due termini estremi, dentro o fuori, sembrerebbe non esistere una terza possibilità. Invece l’arte e la letteratura l’hanno inventata: è il barocco. Il barocco è la madre e il padre dell’arte astratta e di tutte le astrazioni moderne e contemporanee. Non è la negazione della natura, che nel secolo di Locke e degli empiristi, il Seicento, non sarebbe stata possibile; ma è il tentativo di uscire dai due corni del dilemma, rappresentazione oggettiva o partecipazione emotiva, attraverso il superamento – addirittura! – dell’elemento naturale. La natura viene rappresentata in forme stilizzate o in forme estreme, anche nel paesaggio; si cerca di gareggiare con lei e di reinventarla, come se ciò fosse possibile. Si reinventano due formule che in qualche misura già esistevano nell’arte e nella letteratura del passato: la “natura morta” e la “geografia trasportata al morale”. (Quest’ultimo, in particolare, è il titolo di un’opera, a suo tempo famosa, del nostro maggior scrittore barocco, Daniello Bartoli). Entrambe quelle formule sembrano e sono destinate, se non a cancellare il paesaggio dall’opera degli scrittori, quanto meno a farlo diventare la vuota spoglia di qualcosa che c’è stato, di cui si è parlato, e di cui non vale più la pena parlare. La “natura morta” non è soltanto il canestro della frutta che è stata raccolta, lavata e messa in posa per essere ritratta dall’artista; non è soltanto il mazzo di fiori recisi e composti in un vaso di vetro o di ceramica; è anche, in senso letterale, la vuota spoglia di un paesaggio dominato dall’opera dell’uomo, a tal punto che la parte artefatta e quella naturale sono ormai di fatto indistinguibili e interdipendenti tra loro. È la Brianza (mascherata da Sudamerica) di cui parla Gadda in La cognizione del dolore, così irta di ville e di edifici superflui da essere irriconoscibile rispetto al suo passato e a qualunque passato. Vogliamo dare un assaggio di natura morta nella prosa barocca di questo autore, tra i massimi del nostro Novecento? Eccola: «Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchòn – orto, frutteto, garage, portineria, tennis, acqua potabile, vasca pozzonero oltre settecento ettolitri: – esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante mezzogiorno […]. Di ville di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, «digradano dolcemente»: alle miti bacinelle dei loro laghi […]. Della gran parte di quelle ville, quando venivan fuori più “civettuole” che mai dalle robinie, o dal ridondante fogliame del banzavòis come da un bananeto delle Canarie, si sarebbe proprio potuto affermare, in caso di bisogno, e a essere uno scrittore in gamba, che «occhieggiavano di tra il verzicare dei colli». Noi ci contenteremo, dato che le verze non sono il nostro forte, di segnalare come qualmente taluno de’ più in vista fra quei politecnicali prodotti, col tetto tutto gronde, e le gronde tutte punte, a triangolacci settentrionali e glaciali, inalberasse pretese di chalet svizzero, pur seguitando a cuocere nella vastità del ferragosto americano […]. Altre villule, dov’è lo spigoluccio più in fuora, si dirizzavano su, belle belle, in una torricella pseudo-senese o pastrufazianamente normanna, con una lunga e nera stanga in coppa, per il parafulmine e la bandiera […]». Sulla devastazione del paesaggio della Brianza, anche dopo Gadda e soprattutto dopo Gadda, si potrebbe continuare a lungo. Si potrebbe raccontare come, dopo le ville, siano venute le fabbriche e l’edilizia popolare per gli operai, e le strade asfaltate, e i capannoni, e i parcheggi, e tutto ciò che ha reso irriconoscibile, un’unica immensa periferia urbana, la Lombardia a nord di Milano; ma non è questo il tema di cui ora dobbiamo occuparci. Dobbiamo dire invece della «geografia trasportata al morale» di Daniello Bartoli e di altri autori del Seicento e dei secoli successivi, che è un modo per far diventare prevedibili e normali, come il riflesso di un oggetto in uno specchio, quelle «corrispondenze» tra i sentimenti umani e la natura, tra i sentimenti umani e il paesaggio, che da Omero a Baudelaire attraversano tutta la nostra letteratura restando sospese nei testi come un interrogativo, come un’inquietudine, come un indizio di qualcosa che c’è ma non ha spiegazione. Invece, secondo Bartoli, la spiegazione esiste. La natura con i suoi paesaggi non fa che riflettere gli aspetti e gli atteggiamenti dell’animo umano, e tutti i paesaggi del mondo corrispondono a qualcosa che è dentro di noi, alle nostre virtù o ai nostri difetti. Il mondo, se si potesse rappresentare nella sua interezza, sarebbe un uomo: un «uomo illustrato», secondo la felice immagine dello scrittore americano Ray Bradbury. Così, ad esempio, il deserto di Libia è «sabbion trito, polvere morta e giacente in una pianura sì eguale che, non che monti o selve con cui si cozzi e rompa, ma non v’ha un palmo di terra che rilevando contrasti indebolisca la gagliardia del vento. Or quando egli (il vento) su quell’ondeggiante e a ogni fiato movevole mar di rena si distende e’l tempesta […] spiantane le città, e via seco per aria aggirandole in volte in un polveroso turbine le trasporta, fin che stanco ne lascia piombar giù con orribile scroscio una tempesta di case […]». Le città che si sbriciolano dopo essere state trasportate dal vento, ci dice Bartoli, sono un miracolo del deserto di Libia. Ma questo miracolo non deve stupirci, perché «continuo a vedere in tutto il mondo che tutto anch’egli, come la Libia, fabrica in su la rena. Il tempo e i mille rovinosi accidenti che l’accompagnano se ne portano via di dov’erano le città; e se non ancora le monarchie, gl’ imperi, i regni, pure almen li trasportano […]».
Credo di avere passato in rassegna, sia pure per sommi capi, i vari modi con cui la letteratura ha trattato il paesaggio nel corso dei secoli. Resterebbe ora da dire, ma sarebbe un’impresa praticamente impossibile, del presente: in cui ancora dominano le forme del passato, in virtù di un esasperato antropocentrismo che considera rilevanti, e degne di essere raccontate, soltanto le vicende umane; e considera la natura, e i suoi paesaggi, come un contenitore per le nostre storie o, nella migliore delle ipotesi, come uno scenario in grado di partecipare a quelle storie, riflettendone qualcosa all’esterno. Questo atteggiamento, come ho detto, è tuttora dominante; ma, sia pure con lentezza, si stanno facendo strada una nuova forma di realismo, e una nuova capacità di intendere, per cui l’ambiente naturale viene ormai considerato un’entità indipendente e autonoma rispetto alle nostre storie, su cui pure può agire e da cui spesso è condizionato. In questa nuova prospettiva, l’ambiente e i paesaggi che lo rappresentano entrano di diritto nella nostra letteratura come personaggi con cui si devono stabilire dei rapporti e con cui anche bisognerà fare i conti, prima che sia troppo tardi. Sono loro i protagonisti delle nostre vite e della nostra arte, perché sono loro che, in definitiva, le rendono possibili. Le idee di Omero, e quel suo modo di descrivere il paesaggio tra poesia e religione come un organismo vivente, non erano poi così lontane dalla realtà come ci sono apparse per troppi secoli. La letteratura del futuro dovrà in qualche modo ricollegarsi a quella del passato, se vorremo che ci siano ancora storie da raccontare e paesaggi in cui collocarle. Un orizzonte esclusivamente umano, per noi e per le nostre storie, non soltanto sarebbe insopportabile, come già aveva intuito Friedrich Nietzsche più di un secolo fa, ma non sarebbe possibile e forse non è nemmeno pensabile.