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Partita a bridge

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Il racconto che segue è un breve estratto da Natività, Caucasian uno dei racconti contenuti in White People, forse la più celebre raccolta di racconti di Allan Gurganus. Di recente ripreso in Italia da Playground, Gurganus è stato definito un autore “indispensabile” della letteratura americana. L’humour oltraggioso delle sue opere, il trattare in modo sublime, e spesso assurdo, la quotidianità ha fatto accostare la sua opera a quella di autori come Flannery O’Connor e Mark Twain. Il mondano, l’ordinario, e la diversità che s’insinua in essi come una “forza della natura” sono alcuni fra i temi principali della sua opera. Di lui Mark Childress ha scritto: “È un autore in grado di ricordarti che qualcosa di ben scritto può servire a renderti migliore la vita”. Come moltissimi autori del panorama letterario americano, anche la sua avventura artistica s’incrocia col Creative writing Workshop di Stanford, lo storico laboratorio di scrittura creativa fondato da Wallace Stegner.
Nicola Manuppelli
 
 
PARTITA A BRIDGE.
(“Che cosa c’è che non va?” chiede mia moglie. Già lo sa. Ma glielo dico lo stesso).
Sono nato durante una partita di bridge.
Questo spiega alcuni svolazzi e ombre nel mio carattere. A volte immagino i miei geni come tante tartine colorate disposte su un vassoio ovale d’argento.
Mamma aveva da poco superato la trentina ed era all’ottavo mese e mezzo. Figlia di un colonnello, poteva vantare un quoziente intellettivo lodevole oltre che una certa indipendenza economica. Amava il giardinaggio ma, in gravidanza, non poteva chinarsi o togliere le erbacce. Amava nuotare, ma si sentiva troppo insignificante per apparire al Club in costume da bagno. “Cammino come una papera” diceva al marito, ridendo. “Come le sei papere della filastrocca che cercano di restare in fila. Oh, odio le papere!”
La sua migliore amica, Chloe, Gran Maestro della zona e organizzatrice del torneo, era un autentico fenomeno nell’ammassare donne compatibili fra loro in certe villette lungo la costa per partecipare alla maratona di bridge.
“Helen cara?” disse al telefono Chloe. “So che sei occupata, cara, ma ascolta. Siamo a corto di una persona qui a casa mia. Saundra Harper Briggs alla fine è riuscita a entrare al Duke per quella dieta radicale a base di riso. Giusto in tempo. Dicono che il marito ha dovuto accompagnarla lassù in station wagon, sul retro della station wagon! Ecco, mi rifiuto di discriminarti solo perché sei incinta. Continuiamo a parlare di te, siamo ancora eccitati per il tuo Grande Slam all’Hilton Head. Potrei mandare qualcuno a prenderti in, diciamo, quindici minuti? No, sì? Ce la fai a prepararti? A meno che tu non ti senta troppo debole.”
La gente che pratica qualche attività per hobby spesso si aggrappa ai complimenti con un ardore sconosciuto ai professionisti. E Helen Larkin Grafton era la classica dilettante, prodotto tipico di una Richmond che, abilmente e già dai primi passi, abitua le sue signore a edere e topiarie e bonsai, a potare di qui e di là, preparandole a esistenze decorative, legate alle radici, dentro casa o molto vicine a essa. Helen, tipica ragazza bianca e non più una novellina, era più abituata ai commenti gentili riguardanti i vestiti o l’aspetto o la propria particolare abilità nel foxtrot. E qualsiasi commento circa la sua intelligenza, anche una menzione alla ben nota abilità per le carte, la riempivano di gioia. Così, eludendo quello che era il suo stato, e annoiata dall’essere trattata come se la gravidanza fosse un qualche tipo di malattia terminale debilitante, disse: “Oh, mi farebbe davvero piacere venire. Ci vediamo fra poco, Chloe. E Dio ti benedica per aver pensato a me. Ero qui seduta, sentendomi come… beh, come una grande e grossa palla di fango”.
Le altre donne applaudirono quando fece il suo ingresso, indossando un largo abito di lino grezzo, con le mani affondate nelle tasche di fronte, fatte con toppe color cioccolato (tutto questo l’ho sentito raccontare dalla mia madrina, Irma Stythe, una ex infermiera di guerra, assai attenta alla moda, e che ogni tanto faceva la critica cinematografica per il giornale locale).
Con molto trambusto vennero piazzati due cuscini di velluto su una sedia pieghevole e venne fatta accomodare la nuova ospite. Si occuparono di lei, insomma – la giovane Helen Larkin Grafton. Le frasi galleggiavano nell’aria fumosa: Oh, cara ragazza. È come un uccellino. Ha abortito i primi due, sapete? Oh, sì. È bravissima nel giardinaggio. Ha fatto le scuole su a nord, ma questo non ha rovinato il suo carattere e nemmeno il suo accento – è puro Richmond! È una ragazza in gamba. Un’ottima giocatrice. Sembra fresca come una sposa.
Queste donne si piacevano l’un l’altra, il più delle volte. O quanto meno si conoscevano, il che forse contava ancora di più. I figli si scambiavano fra loro i segreti di famiglia, portandoli di casa in casa, in una sorta d’impollinazione. E i mariti possedevano le stesse azioni e giocavano a golf fra di loro. Ma le donne prima si conoscevano e poi decidevano se piacersi o meno, mentre i mariti spesso andavano d’accordo (fino a prova contraria) ma non sempre si conoscevano in profondità. In ogni caso, era una comunità. Un rifugio, dove si condividevano le medesime colf, ci si mandava biglietti di auguri per Natale, ci si salutava per strada col nome.
Circa un metro sopra i tappeti persiani e caucasici, si stendeva un’intera fila di tavolini messi lì provvisoriamente a formare una specie di nuovo livello rialzato della casa, che ricopriva i corridoi e il pianerottolo al secondo piano. Le donne erano ammassate ai quattro lati, una di fronte all’altra. C’erano gli scontati colori pastello tipici della stagione e le spalline con l’imbottitura. Borse appoggiate su ogni sporgenza. Sulle mensole, sulla balaustra. Posacenere in cloisonné pieni di sigarette mezze fumate. Rinfreschi – gelatine di carne, crescione, cetrioli – che attendevano in cucina. In ritardo a servirle c’era Chloe, l’organizzatrice del tutto, una bionda in carne che continuava a guardare l’orologio con discrezione. Un piacevole vociare. Grida di esclamazione per una buona o una cattiva mano. Quarantenni più o meno affascinanti. Giovani adepte. Tutte le stanze che risuonavano di voci – il grande dono delle donne del sud: saper fare uscire dalle bocche simili squilli. Mobili in stile Regina Anna, ritratti degli antenati, libri rilegati in marocchino, marrone e dorato, soprammobili Williamsburg beige, o verde oliva attenuato. Una casa incantevole, piena zeppa di rumori deliziosi, e di accanite fumatrici, sebbene non inalassero il fumo.
Mikado, il pregiato pechinese di Chloe, sbuffava passando sotto i tavoli da gioco come attraverso un tunnel avvolto da colonne. Si sporse, torvamente interessato, verso quel nuovo profumo. Vecchio e asmatico, Mikado si prendeva la libertà durante il tragitto di aggrapparsi alle gambe delle signore, più in alto che poteva, per annusarle e strofinarsi  languidamente contro la seta sibilante e gli stinchi confusi di tutte le donne lì riunite. Chloe aveva legato un fiocco giallo attorno al ciuffo dell’animale; lui riusciva a tollerare questo nei giorni in cui si giocava a bridge, perché era un buon affare in cambio della piacevole sensazione di trovarsi sotto una specie di casa fatta di tavoli da gioco e carte che venivano rumorosamente buttate giù. Il percorso che faceva era cosparso di scarpe che scalciavano e piedi vagamente profumati da sospingere. Ricordo qui Mikado, un tempo vincitore di un nastro a una mostra canina, solo perché fu lui a sospettare – prima di ogni altra creatura vivente – che in quella casa rumorosa qualcosa stava per accadere.
A un certo punto si fermò e rimase sotto il tavolo dove stava Helen e osservò – posseduto e rapito – la fessura (ho il coraggio di affrontare questa sequenza orribile e l’indecente seguito, cioè la mia vita?) fra le ginocchia leggermente aperte di Helen.
Il muso grasso di Mikado era costituito principalmente dal naso, perennemente umido e freddo come la gelatina di carne che in quel momento luccicava sul bancone della cucina. La cataratta argentata gli aveva coperto entrambi gli occhi, sporgenti come quelli dei pesci rossi. Il fiuto, perciò, tanto carico di nuove emozionanti dimensioni, rimaneva l’unica grande sensazione in grado di scuoterlo e consolazione che gli era rimasta. Si avvicinò per annusare la donna, abbastanza vicino alla seta per poter cogliere un campione migliore di quel profumo, qualcosa di ricco e decisamente fuori luogo in quel contesto. Quando piazzò il grosso muso freddo sulla tibia di Helen, che aveva appena giocato le proprie carte, le procurò un brivido che la fece indietreggiare. Una lievissima torsione pelvica, poi un sorriso sereno di riconoscimento da parte di lei. “Oh, Mikado” sussurrò rivolta verso le carte, disposte come il ventaglio di una geisha. Perché la loro era una comunità dove le donne conoscevano i nomi dei giardinieri delle amiche e delle loro domestiche e dei cani da passeggio.
Poi… nell’intimità di quelle chiacchiere da tè, nel decoro di quel gioco privo di rischi, irruppe, quasi in modo prepotente, la Natura. Come a voler fare razzia di tutto quel decoro, cercò il momento giusto e piazzò il colpo basso. E a quel punto accadde.
Il cane fu ricoperto dalle acque che si ruppero, come un secchio che gli veniva versato addosso. Guaì e corse via sotto il tavolo, fra una selva di gambe di tavoli e piedi di donne, trovando rifugio sotto l’ombra della propria credenza preferita. E una volta lì, Mikado crollò a terra e stava ansimando quando la bocca di Helen, disegnando una O perfetta, esplose in un urlo decisamente poco signorile e di qualche ottava più basso rispetto alla tipica cadenza melodiosa. “Oh, mmmio dddio! Ci sono, ci sono!”
Le carte caddero sul tavolo, alcune vacillarono sul ventre rigonfio della donna e caddero sul tappeto bagnato. Le tre compagne di tavolo balzarono in piedi, rovesciando il tavolo. Con esso cadde un sottobicchiere pieno di mozziconi di sigaretta sporchi di rossetto. Tavolo per tavolo, prima di sotto e poi di sopra, la notizia si sparse alla velocità del suono. Le tre donne corsero ad aiutare Helen ad alzarsi, ma lei era stirata sulle gambe. Più che seduta, era appoggiata contro la sedia, quasi pietrificata, come una stella marina, mormorando qualche parola in latino, ricordo dei suoi giorni in convento.
In un primo momento la trascinarono verso una poltrona di velluto. Ma Chloe, che aveva appena speso una fortuna nel farla risistemare, le dissuase dal fare sdraiare lì l’amica, facendo loro un cenno, sbucando dalla porta della cucina. Il gruppo, allora, si diresse là dentro, e, in mancanza di un posto migliore, face sdraiare Helen sul bancone centrale, sotto un pannello di tubi fluorescenti ronzanti. La spalla di Helen urtò una ciotola di legno piena di stuzzichini per la festa (bastoncini di pretzel, noci, cracker, un po’ di sale e salsa Worcester) facendoli finire sul muro in finto mattone. Altri piatti si rovesciarono. Mentine verdi e rosa si sparsero ovunque, la coppa d’argento tintinnò in un angolo. Una gelatina di carne cadde, spappolandosi in mille pezzi luminosi prima che le gemelle Spider si prendessero la briga di sistemare tutte le altre vivande della festa lungo gli scaffali o sul pavimento attorno al bancone dove Helen giaceva distesa.
Le amiche erano tutte indaffarate a tenerle le mani, a cercare di asciugarle la gonna con la carta assorbente, e a quel punto Pat Smiley corse a telefonare all’ospedale per chiedere un consiglio. Ma si dimenticò di far chiamare l’ambulanza.
Tratto da The Stanford Book, di prossima uscita
(Traduzione di Nicola Manuppelli)
 

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