C’è anche c’è chi dice no ai premi letterari: è il caso di Imre Oravecz, uno tra i migliori scrittori contemporanei, che in una lettera indirizzata al “Consiglio dei Ministri” d’Ungheria nell’Aprile 1989 rifiutò il Premio Attila Jòzsef, l’equivalente del Premio Strega in Italia, come rivela questa lettera a oggi inedita. Non è stato possibile per lo scrittore accettare perché “il mio senso morale è ancora intatto”. Il Muro di Berlino doveva ancora cadere, sarebbe accaduto pochi mesi dopo, nel Novembre di quello stesso 1989, ma la “cortina di ferro” in Ungheria era ancora una realtà da regime sovietico. Come scrive lo stesso Oravecz si viveva in “un mondo in cui non esiste un sistema di valori naturali” e “il potere statale decide anche su cosa è l’arte e chi è un’artista”. Imre Oravecz rifiutò quel premio, anche in denaro, motivando che “gli anni della mia vita in cui ero ancora nel pieno delle forze creative e forse avrei potuto scrivere tutto ciò che non potrò mai più scrivere”. Il romanzo che i comunisti volevano premiare è ora pubblicato in Italia: è “Settembre 1972”, traduzione di Vera Gheno, pagg. 128, euro 15,50) edito da Edizioni Anfora di Monika Szilagyi che ha già contribuito al successo di Magda Szabo in Italia. Certo Oravecz non è stato il primo a rifiutare un Premio letterario, ma disobbedire ad un Regime come quello sovietico è un’altra questione: tanto che lo scrittore (nato nel 1943 a Szajla, Ungheria) in quello stesso 1989 decise di rifugiarsi negli Stati Uniti per ritornare solo l’anno dopo, diventando consigliere della presidenza del primo Governo eletto democraticamente. C’è solo un precedente di rifiuto per motivi politici: nel 1958 il Nobel per la letteratura fu assegnato allo scrittore russo Boris Pasternak (1890-1960) “per i suoi importanti risultati sia nel campo della poesia contemporanea che in quello della grande tradizione epica russa”. Pasternak rifiutò “volontariamente” il Premio Nobel perché Il dottor Živago era vietato in Unione Sovietica per la visione critica che mostrava del regime comunista. Il romanzo fu pubblicato in Italia grazie a Feltrinelli nel 1957 (in Russia solo nel 1988).
Per questo motivo l’assegnazione del Nobel l’anno successivo alla pubblicazione fu vista come un’umiliazione da parte del Partito Comunista Sovietico che iniziò una massiccia campagna di diffamazione e pressione nei confronti dell’autore che si vide costretto a rifiutare il premio. Ben diverso fu il caso di Jean Paul Sartre che rifiutò il Nobel per la letteratura nel 1964 perché, se lo avesse accettato, avrebbe compromesso la sua integrità di scrittore. In un articolo pubblicato su Le Figaro, Sartre espose il suo punto di vista: “Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in un’istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli, come in questo caso”. In Italia tra i pochissimi a rifiutare un Premio è stato nel 1968 Italo Calvino vinse il Premio Viareggio per la sua raccolta di racconti Ti con zero. Lo scrittore rifiutò il premio con un telegramma, nel quale scrisse: “Ritenendo definitivamente conclusa l’epoca dei premi letterari rinuncio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato”. Come l’editore Neri Pozza che, in una lettera ritrovata nell’archivio del grande critico Giancarlo Vigorelli e pubblicata sulla rivista Satisfiction, il 26 aprile 1984 scrisse “La società letteraria dei nostri giorni mi sembra di natura accidentale ed ha carattere mondano. Si riunisce per qualche ora quando gli eventi indicano le Kermesse. Può essere di mutuo soccorso o mossa da curiosità, come una corsa ciclistica o una partita di calcio. Insomma un’adunanza (ho scritto adunanza e non adunata). In altri tempi un gran ballo aveva la stessa funzione; ma era una funzione esplicitamente mondana, che portava magari al matrimonio una coppia; e il libro non c’entrava per nulla. Voglio dire che non era chiamato per arruffianare la festa”. Chissà cosa direbbe oggi Neri Pozza ora che la casa editrice vive anche grazie al “concorso letterario” per aspiranti scrittori. Chissà perché da noi i tanti scrittori che denunciano di vivere in un regime fascista (su tutti Roberto Saviano) non rifiutano mai premi e passerelle.
Tornando a Settembre 1972 è telegrafico come può essere il dolore, intimista come può essere un romanzo in forma di diario dell’esistenza: 99 storie, 99 istantanee di vita, 99 tracce di esistenza impresse sull’inchiostro come una scultura nella pietra.
Un monologo interiore che si avvicina molto alle vette di Thomas Bernhard e Peter Handke, pur non essendo un emulatore. La voce narrativa è assolutamente originale come lo sono i suoi ritratti: istantanee di vite sfiorate eppure affondate da una vita che non arriva mai a 100. Notevole è anche l’eco di una poesia che ammanta con dolcezza tutte le pagine e ci accarezza l’anima: un inno all’amore, al tu e io, e sullo sfondo il noi, una società persa nel troppo vociare.
Anche se forse un romanzo più vicino all’America e ricorda il minimalismo di Raymond Carver ma con la potenza della cultura europea che gli appartiene soprattutto nei paesaggi interiori (che ricordano Robert Walser).
Un grande autore assolutamente da scoprire e che ci incanta pagina dopo pagina. Senz’altro il miglior libro pubblicato in Italia quest’anno insieme a In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas (Guanda).
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Spettabile Consiglio dei Ministri,
Da quando esiste la letteratura esistono anche i premi letterari. Ci sono premi prestigiosi e ci sono quelli poco importanti. Ci sono quelli che sono un onore per lo scrittore e altri che sono onorati se lo scrittore li accetta. Così è il mondo, questo è il suo ordine. Tuttavia, lo scrittore non scrive perché aspira a un premio. Inoltre, forse uno scrittore si può considerare davvero tale solo quando non aspira più a nulla. Né ai premi, né ad altro. Certo, gli piace l’alloro perché anche lui è un essere umano. Ci vede il riconoscimento e l’apprezzamento del suo lavoro. E con i soldi che gli mettono nella mano, può comprare qualcosa. Carta, cibo, vestiti per sé e per la sua famiglia. Può invitare a cena i suoi amici, cambiare macchina da scrivere o persino tinteggiare se non l’appartamento, almeno lo studio. Supponendo che abbia uno studio e la notte non si debba curvare sul tavolo della cucina.
Cioè fa quello che tutti farebbero al posto suo. Perlomeno in circostanze normali. Io stesso ho immaginato così la cosa fino alla fine degli anni ’60, quando desideravo ancora il Vostro premio. Quando credevo che almeno nella letteratura le condizioni fossero normali. Quando cercavo in me l’errore e mi incolpavo per non aver ottenuto l’ammissione. Ma quando avevo capito come stavano le cose, che la mia colpa era soltanto di scrivere poesie di un altro genere rispetto a quello che Voi avreste voluto leggere, ad un tratto l’idea ingenua era crollata. Da quel momento in poi, avrei voluto al massimo ottenere il Vostro riconoscimento per rifiutarlo e ribattere. Per far sapere al mondo intero che non lo volevo, che mi rifiutavo, che non avevamo mai mangiato nello stesso piatto. Ammetto, quel comportamento sorgeva dal risentimento e che era per lo meno tanto infantile quanto la precedente percezione della situazione. Ma forse è perdonabile perché allora ero giovane e inesperto. Avevo bisogno di qualcosa con cui trastullarmi, con cui tenere l’anima in me.
Avevo bisogno di quell’assurda eventualità dato che non avevo nient’altro. Neanche un lavoro, non una cattedra, poiché avete provveduto che io non potessi insegnare, che non potessi ottenere un lavoro adatto alla mia istruzione e alle mie capacità.
Poi ho lasciato perdere anche quello. Perché dopo un po’ non mi dava più soddisfazione vera. Anzi, aveva un effetto paralizzante su di me. Ero disperato ma non cieco. Vedevo che cosa stava succedendo intorno a me. I migliori della mia generazione si sono ammutoliti, sono espatriati o sono morti. Ma a quelli che sono rimasti e sopportavano, prima o poi cadeva dalla tavola qualche osso. E sempre più il sospetto si è impadronito di me: una volta, un giorno, in un tempo lontano, gli occhi si sarebbero incrociati in uno sguardo d’intesa in un ufficio, la decisione sarebbe stata presa e avrei ottenuto anch’io qualcosa. Se lo volevo o no. Dovevo solo aspettare. Perché una volta a ciascuno verrà il suo turno e prima o poi tutti ottengono qualcosa in un mondo in cui non esiste un sistema di valori naturali e, a seconda degli attuali interessi politici, il potere statale decide anche su che cosa è l’arte e chi è un artista. Solo che per allora io non sarei stato più lo stesso. Forse sarei stato spezzato, stanco e indifferente. E non l’avrei restituito. Non avrei fatto resistenza, non mi sarei difeso. Avrei lasciato che mi perdonassero l’avermi sgambettato, messo da parte, perseguitato. Avrei lasciato che la mano che fino a quel momento l’aveva colpito solo con pugni, mi accarezzasse il viso.
Ed ecco, ora, molti anni dopo, quando sono più vicino ai cinquanta che ai quaranta e le mie opere, sebbene non senza eccezione, e non come vorrei, ma vengono pubblicate, devo affermare che il mio sospetto non era infondato. Quello che prima desideravo molto, e dopo affatto, il 4 aprile si era realizzato. Come ho appreso dal Vostro comunicato stampa, tra i vincitori del Premio Attila József di quest’anno c’è anche il mio nome. È arrivato dunque il mio turno secondo la vecchia ricetta. È successo di nuovo come di solito succede da quelle parti. I tempi promettenti del cambiamento non hanno ancora intaccato questa pratica ignobile. Fortunatamente, tuttavia, le mie paure non si sono avverate. Sebbene la mia salute sia già traballante, il mio senso morale è ancora intatto e mi impedisce di entrare in questo gioco. Pertanto, Vi informo che non accetto il Premio Attila József. Vi chiedo di annullare la decisione dell’organismo competente e di informare il pubblico e le istituzioni pertinenti della mia azione. Per lo stesso motivo non pretendo la somma di denaro per il premio, ma Vi metto in guardia dall’utilizzarla per supportare l’editoria statale. Onde evitare che mi ricapitasse quello, che era capitato nel caso della raccolta di poesia Settembre 1972 che è nella motivazione del premio. Vale a dire, avevo ricevuto un supplemento di royalties mascherato da premio, come risarcimento del numero di copie tenuto ridicolmente basso per una sorta di deselezione naturale, e potrebbe facilmente succedere che la somma arrivasse a me, e non lo voglio.
Sarebbe bello chiudere le mie righe dicendo che sono felice perché il peggio non è arrivato. E che mi sono preso una rivincita. Qualcosa di simile avevo sperato nella mia impotenza quando non avevo la minima possibilità di farVi saltare la mosca al naso. Ma non lo sento. È vero, nemmeno indignazione o rabbia. Semplicemente sono soltanto triste perché Voi mi ricordate la mia vita che è già oltre il suo apogeo. Gli anni della mia vita in cui ero ancora nel pieno delle mie forze creative e forse avrei potuto scrivere tutto ciò che non potrò mai più scrivere.
Berlino Ovest, aprile 1989
I migliori saluti,
Imre Oravecz
scrittore