Quale valore assegna la nostra società alla libertà di sguardo, d’invenzione e creazione? Rossana Campo, scrittrice genovese e autrice di numerosi romanzi, risponde all’interrogativo nell’inedito in anteprima su Satisfiction. Attraverso l’esempio di artisti come Debuffet e Chaissac la Campo celebra l’alienazione, la meraviglia, lo sguardo libero dallo spirito critico, come valori fondanti dell’arte. Solo così, sembra dire, l’artista coglie la sostanza delle cose. Anche in questo inedito ad essere approfondito è un tema caro alla scrittrice: tutti i suoi romanzi, da In principio erano le mutande fino a L’attore americano, Più forte di me, e Lezioni di arabo, sono popolati da antieroi, esclusi e stravaganti, cui lo sguardo affettuoso e disincantato dell’autrice conferisce vibrante umanità, in un linguaggio quotidiano, incisivo, colorito.
L’ARTE SOPPIANTA TUTTI GLI ALTRI ENZIMI.
È una cosa che mi è venuta in mente qualche giorno fa mentre camminavo per rue de Sèvres, una strada in cui passo spesso per andare a trovare una mia amica che abita lì vicino. Ogni volta che passo davanti al numero 137 della rue de Sèvres non posso fare a meno di pensare all’artista Jean Dubuffet che qui ha vissuto e lavorato per moltissimi anni della sua vita. E adesso la sua casa-atelier è diventata una fondazione ed è possibile visitarla, tante volte mi ritrovo a entrare in questo portone, attraverso il piccolo giardino e mi immergo in questa grande casa luminosa di tre piani in mezzo ai quadri di Dubuffet e i cataloghi delle sue opere e i libri che ha scritto. E mi sento felice, ogni volta. Dubuffet lui è uno dei miei artisti preferiti, uno di quelli che torno sempre a guardare e a leggere, e così, qualche giorno fa passando in questa strada mi è tornata in mente una delle molte cose importanti che ha scritto e poi la notte sono andata a cercarla e eccola qui, tradotta: I bambini, come i pazzi, sono fuori dal sociale, fuori dalla legge. Asociali, alienati: proprio quello che l’artista deve essere. Ecco da dove viene il sapore dei loro disegni, la libertà d’invenzione che in loro troviamo, la facilità e la disinvoltura delle loro trascrizioni. Il loro ardimento e soprattutto (ed è questa la chiave di volta della pittura) la forte capacità di “vedere” sul serio ciò che è dipinto, senza che lo spirito critico intervenga subito, come succede nell’adulto, nel “professionista”, a impedirlo.
Ecco, ripenso all’antipatia che Dubuffet aveva per i cosiddetti professionisti dell’arte, antipatia umana, culturale e anche politica, e mi dico che anch’io trovo piuttosto fastidioso e deludente quando in un artista o in uno scrittore o in un musicista, senti che la “professione” ha preso il sopravvento. Questo non vuol dire che si possono scrivere buoni romanzi o fare cose artistiche interessanti solo se non ci si dedica seriamente a questi lavori. Al contrario io credo, come diceva Flaubert, che per riuscire a creare qualcosa che valga la pena un artista o uno scrittore si debba votare completamente alla sua opera, bisogna investirsi completamente in quello che si fa e mettere lì tutte le proprie energie migliori. Ma quello che mi sembra importante è il non sentirsi mai sicuri, o arrivati, o peggio di successo. Credo che se un artista non sa mantenersi un po’ nell’incertezza, nel dubbio, se non sa tenere viva la propria parte che continua a scoprire e a stupirsi e a patire, anche, delle cose del mondo, il suo lavoro perde qualunque magia.
Leggo un’altra cosa scritta da Dubuffet: Un motivo canticchiato da una ragazza che pulisce le scale mi turba più di una sapiente cantata. Ognuno ha i suoi gusti. A me piace il poco. Mi piace anche l’embrionale, l’incompiuto, l’imperfetto, lo spurio. Preferisco i diamanti grezzi, con la loro ganga. E con i falli.
Ecco, mi dicevo, sempre camminando l’altro giorno lungo la rue de Sèvres, forse è così, è qualcosa che ha a che fare con quello che i buddisti chiamano lo spirito del principiante. Se nella vita e nell’arte non si riesce a coltivare un po’ dello spirito del principiante le cose finiscono per perdere qualunque interesse.
Poi, un altro pomeriggio, ho attraversato place de la Concorde e sono entrata nei giardini delle Tuileries passando davanti al Jeu de Paume. In questo magnifico spazio qualche tempo fa avevo visto una mostra dedicata a Gaston Chaissac, un altro pittore molto importante per me e mi è venuto in mente che questo artista è stato scoperto proprio da Jean Dubuffet.
Chaissac è morto nel 1964 a soli 54 anni, ed è stato riconosciuto nell’ambiente artistico solo pochi anni prima della sua morte. Ha vissuto una vita da outsider, senza un soldo, nella campagna francese, in completa libertà. Ha potuto così sperimentare e divertirsi molto con la pittura, la scultura, i collage, la scrittura… In una lettera a Dubuffet scriveva: Io sono capace di fare delle cose che non tutti possono fare. E dunque, mi è un po’ difficile fare quello che tutti possono fare. Nel paesino dove abitava era considerato uno un po’ fuori di testa. Racconta in un’altra lettera: Nel paese, mi consideravano un matto, e tutti quelli che compravano la mia pittura erano considerati ancora più matti.
Della sua arte Chaissac dice: Quello che mi interessa è il non-talento, la pittura incerta, sprovvista di ogni abilità.
E dunque, continuando a camminare per le Tuileries in un tardo pomeriggio di fine aprile, ho pensato che questo è ciò che mi entusiasma negli artisti (e anche negli scrittori), quando sanno tirare fuori questo coraggio della non esibizione del talento, della non-abilità. E già che ci sono, direi che anche nelle persone, in generale, mi piace trovare questo, ed è così che a volte sono intristita dall’umanità, perché mi sembra composta sempre di più da quelli che vogliono sembrare all’altezza della situazione, che vogliono apparire sempre belli, giovani, in tiro, ricchi, con le belle automobili e le belle fidanzate.
Ripensando a Chaissac e a Dubuffet, mi sono detta che forse si diventa artisti per andare contro le regole del mondo, per trovare un modo di stare al mondo secondo regole che ci diamo noi, che stanno bene a noi, contro le regole dell’umanità che vuole essere sempre all’altezza di tutto. Un artista, come uno scrittore, se è davvero tale, se fa sul serio, compie una specie di cammino di autoeducazione, di autodisciplina, e si costruisce la sua vita e il suo lavoro in libertà, mettendosi al mondo da sé, contro il discorso dominante, contro le regole che hanno cercato di imporgli. Chi? Mah, per esempio la scuola, la famiglia, le chiese, le religioni, la televisione, il gruppo, le mode culturali…
E un’altra cosa, forse la pittura, la scrittura, le arti in generale sono un grande antidoto a questo lato stupido dell’umanità e le ore passate in solitudine viaggiando dentro un libro, entrando in un’opera, dentro se stessi, sono una specie di droga fantastica senza effetti collaterali per andar via dalla banalità. E una volta che l’hai provata e ti è entrata nel sangue non puoi farne più a meno. L’arte soppianta tutti gli altri enzimi, comanda la ghiandola pineale e come con l’eroina, il solo antidoto all’arte è l’arte stessa.