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Satisfiction 326: I fantasmi buoni di Geda

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La vita è incontro. Poi metterla nero su bianco e farne un romanzo oppure un brano musicale, quello sì è un caso. E i romanzi di Fabio Geda nascono quasi sempre da un incontro. Non tutti, ma molti, e sta diventando un abitudine. Nel suo ultimo libro, L’estate alla fine del secolo, si riaffacciano personaggi ormai topici dell’opera letteraria di Geda. Linea diretta sulle generazioni. Una fucilata. Figlio, padre, nonno. E viceversa. Dunque Geda mentre scrive il suo ultimo libro incontra un uomo in carne e ossa, Franco DeBenedetti Teglio, che gli racconta una storia e lo affascina. E ne nasce un personaggio avvincente, il protagonista assoluto di questo romanzo che potremmo definire terapeutico: il nonno appunto. Un uomo talmente impalpabile e assente nei rapporti da risultare invisibile. Per tutti, tranne che per il nipote sconosciuto. Ma, attenzione, questa è la spiegazione che dà Geda. Solo che non convince del tutto.
Dario Digeronimo
Dì la verita: dove avevi già incontrato il personaggio del libro, o meglio: dove e quando lo hai perso?
Forse l’ho perso nella mia vita? Può darsi. In realtà ho avuto rapporti poco intensi con i miei nonni. Il mio nonno preferito era nonno Pinin: Giuseppe. E’ morto sciando. Un infarto. Non ricordo proprio la scena però ricordo la giornata. Avevo sei anni. Ricordo la neve, lo sgomento, la sorpresa, il ritorno in macchina. In ogni caso, quello che in realtà mi interessa davvero è indagare il rapporto tra le generazioni e in modo particolare il rapporto padre-figlio. A dirla tutta, credo di usare il nonno come surrogato del padre. Lo uso per prendere le distanze, ma quello che m’interessa raccontare è la paternità.
Il padre. Nei tuoi libri per una ragione o per l’altra è sempre assente.
Credo dipenda dal rapporto intenso e complicato che ho avuto con il mio di padre, un uomo trasparente e generoso, ma meno presente di quanto avrei voluto, meno pro-attivo di quanto desideravo. Mi spiego meglio: lui c’era sempre se lo chiamavo e c’era in modo affettuoso e partecipe, ma raramente era lui a cercare me. Ho sentito in modo intenso il suo “non cercarmi”, e questo sentimento evidentemente viene strappato via da qualche luogo profondo in me quando invento una storia, e quando la racconto.
La parola padre porta alla parola patria. Patria intesa come luogo dell’anima. Quei luoghi che spesso sembrano irrimediabilmente perduti, giorno dopo giorno. E torni nei luoghi degli avi. Credi che sia possibile il Ritorno?
No, non credo nel ritorno. Tutto è continuamente in mutazione. In quei luoghi andiamo a cercare le nostre origini, il ventre da cui siamo stati generati: ma nel frattempo sono cambiati i luoghi e siamo cambiati noi. Il mio rapporto con mio padre non sarebbe mai stato possibile riavvolgerlo, ma solo evolverlo. E Dio solo sa quanto vorrei avere ancora l’occasione di poterla innescare, quella evoluzione. Ma lui è mancato troppo presto, dieci anni fa. E all’epoca non avevo le parole e non avevo la serenità per dire ciò che oggi sarei in grado di dire.
Dolore, sofferenza, malattia. Poi c’è la guarigione. In libreria, c’è qualcuno che ti ha convinto su questi temi?
Così a caldo mi vengono in mente due libri letti di recente che affrontano il tema del rapporto padre-figlio: Molto forte incredibilmente vicino di J.S. Foer  e Fuori a rubar cavalli di Per Petterson.
Ho scritto molto e quindi, come sempre quando scrivo, ho letto poco. Più in generale, mi viene in mente un splendido libro di Marco Mancassola: Non saremo confusi per sempre. Davvero molto bello. Prende un fatto di cronaca, ad esempio la tragedia di Alfredino Rampi morto a Fiumicino in quel modo orribile, oppure l’assassinio di Federico Aldovrandi, racconta il fatto di cronaca, ma poi innesta un elemento di fantasia, un elemento anche onirico che mette apposto le cose. Esempio, Alfredino Rampi quando sta per morire in quel pozzo, poco prima di addormentarsi per sempre, incontra i personaggi di Verne del Viaggio al Centro della Terra. Cosa gli succede? Be’, leggetelo. Poi HHhH di Laurent Binet. In tedesco è l’acronimo di Il cervello di Himmler si chiama Heydrich. Binet racconta un fatto vero, l’attentato a Heydrich a Praga nel ’42, mescolando il fatto nudo e crudo con le sue riflessioni su cosa vuol dire raccontare la Storia con la esse maiuscola. La responsabilità nel raccontarla, magari in un romanzo. Lui vorrebbe raccontare solo quello che è avvenuto, ma non ci riesce sempre e quando è costretto a inventare si sente in colpa. Molto divertente e molto profondo
Ti accusano di essere consolatorio. Ma allora hanno ragione?
A me piace la scrittura terapeutica. Assolutamente. Ne ho bisogno come lettore e ne ho bisogno come autore. Ma non è che non mi piaccia tutto il resto. Uno dei libri che amo di più è la Trilogia della città di K., che non è propriamente consolatorio, anzi direi una bella martellata sui coglioni.
Chi resterà nei nostri scaffali?
Solo il tempo lo dirà. Resteranno grandi bestseller come Gomorra, ma spero anche libri che hanno avuto una diffusione minore ma che io ho amato. Un titolo al brucio? Vediamo, ad esempio Ultimo parallelo di Filippo Tuena.
C’è qualcosa della letteratura italiana che ti dà il voltastomaco?
La letteratura da cui non sono attratto di solito non la leggo; non sono un teorico, c’è una parte di scrittori italiani che si sono formati all’interno di questo mondo e possono parlarti di correnti, di stili, di temi più o meno trattati, perché magari da quando hanno vent’anni sono nell’ambiente. Io fino a due anni fa facevo l’educatore. il mio approccio è totalmente spontaneo. Non riesco a dare giudizi, non mi sento in grado di farlo, non ho lo sguardo e il bagaglio culturale per poter dire questo libro sì questo no. Quello che è certo è che se un libro non mi prende, lo lascio. Ci sono ancora centinaia, forse migliaia di libri che potrebbero essere fondamentali nella mia vita e che non ho letto. Vado alla ricerca di quelli.
Come lavori?
Il momento di scrittura pura è quello che preferisco. Mi piace, mi piace molto. Ma è normale. E poi c’è la parte di ricerca e fermentazione che accompagna il libro. Anche questa parte mi piace, ma la scrittura ovviamente è il momento più eccitante. Mi ci metto a manetta. Dieci, dodici ore al giorno. Faccio in modo di compattare gli impegni. Ma se in agenda metto cinque giorni di libro, per cinque giorni scrivo dalla mattina alla sera. E smetto di scrivere sapendo già come andrò avanti il mattino dopo. Alla fine di ogni giornata sono completamente rincoglionito.
Il prossimo libro?
Non lo so. Per la prima volta non lo so. Ho scritto un libro ogni anno e mezzo. Ogni volta che ho pubblicato un libro, dopo due mesi cominciavo scriverne un altro: adesso basta. Fino all’estate del 2013 non scriverò nulla. Fino a giugno mi dedico alla promozione de L’estate alla fine del secolo. Poi, ad agosto, mi sposto a New York e ho tutta l’intenzione di starci sei o sette mesi. Poi attraverserò il Nord America. Questo, per ora, è il programma.
Fabio Geda, torinese, ha pubblicato Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani (Instar Libri), L’esatta sequenza dei gesti (Instar libri) e Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari (Baldini Castoldi Dalai)

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