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Bernard -Marie Koltès, La notte poco prima della foresta

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di Fabrizio Baleani

La notte poco prima della foresta.  La drammaturgia notturna di Bernard Marie Koltès.

Per Cèline lo stile è voce, “petit musique” e il suo solido corpo sonoro vibra nell’emissione di un solo fiato, un unicum d’armonie impetuose che schiva le minacce d’interruzione immaginabili in un lucido, emotivo, lirico getto di parole. Un esempio di partitura musicale – letteraria, intensa, concitata, ininterrotta, sgorgante da timbri vocali caldi, ruvidi e profondi al contempo – è il monologo La notte poco prima della foresta, del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès. Egli, indimenticabile collaboratore di Patrice Chereaux, è forse l’ultimo e più radicale maledetto della letteratura francese. Della maledizione s’infestò il suo corpo, divorato, nel 1989, dal più atroce e assurdo morbo della fine del Novecento, quel lembo di tempo senza direzione adatto al suo nomadismo inquieto diviso tra l’attrazione del futuribile degrado newyorkese, i segreti dell’Africa nera e lo smarrirsi nei meandri desolati di una potenza in rovina, l’Unione Sovietica. Di questo istinto girovago sono pervase le sue pagine migliori, tese tra la tentazione dell’oscurità e l’obbligo di eluderla, di emarginarla sul dorso insicuro d’una vitalità disperata, diretta, notturna.  Dell’essenziale disagio dell’esistere protetto e isolato dal bla-bla delle schiere di professionisti marcianti in attesa di marcire, Koltès è un cantore sublime. Ne scruta la ripida e fatale illegalità, s’accorge di come, in fondo, in quel crudo ed elementare atto di universale compravendita cui si riducono i contatti tra gli esseri umani ci sia  solo minaccia e fuga, “l’affare per se stesso, senza un oggetto da vendere e un oggetto da comprare, senza moneta valida e neppure un listino dei prezzi, soltanto tenebre di uomini che s’afferrano, s’annusano, s’intuiscono nella notte.” S’invaghisce di questa ibrida purezza, peculiarità e sorte di quanti riescono a vivere sottratti alla legge e all’elettricità, di quanti si cercano senza pagare il fio della propria ricerca con una stabilità forzata e  una “temperatura d’aria filtrata” o con accomodanti e mesti tributi all’orgoglio. Lo scrittore alsaziano ricorderà in seguito, in una fase più matura della sua produzione letteraria, che la vera crudeltà, “nell’ora autentica del crepuscolo”, consiste nel non riuscire più a perdersi, raggomitolandosi nel comodo labirinto delle convenzioni, loculi costosi dove parcheggiare la propria indifferenza. Infatti: “Non è grave che un uomo ferisca l’altro o lo torturi o anche lo faccia solo piangere, il tormento vero e terribile è quello dell’uomo o dell’animale che rende l’uomo o l’animale incompiuto, che l’interrompe come i puntini di sospensione in mezzo a una frase, che gli volta le spalle dopo averlo guardato e lo riduce a un errore dello sguardo, un errore del giudizio, un errore, come una lettera appena iniziata e brutalmente stracciata…”. Nel monologo La notte poco prima della foresta il vagabondaggio dignitoso e supplice, affamato di sguardi e complicità, diviene invocazione profana incisa nelle viscere, diario intimo di un abbordatore di sbandati, manifesto che promulga, in consonanza autentica con la schiuma della terra, un “Sindacato Internazionale per la difesa dei Ragazzi Non Troppo Forti” (“figli diretti delle loro madri, con la camminata dondolante da maschi tutti un fascio di nervi”). Una prosa da poema contemporaneo raccoglie in un visionario affresco la babele dei linguaggi, il crogiuolo delle speranze disattese, le appartenenze etniche calpestate nel feroce e sregolato agòne delle identità. Vi si cantano “le vecchie, gli arabi, i mendicanti, i controllori, i teppistelli tirati a lucido, lo schifo di odori, lo schifo di rumori, litri di birra, la voglia di una stanza”.
S’inveisce contro la ghettizzante geografia delle città, accuratamente scisse in zone di lavoro settimanale, zone per le moto o per rimorchiare, per avvilirsi nei pressi della tristezza o lasciarsi adescare dagli occhi vivi d’una puttana. Questo delirio teatrale intenso e acre, dal fraseggio lungo, pieno di battute controtempo, è un fluire di pioggia e di vento, di camminate sui marciapiedi, di rifiuto d’ogni specchio o simulacro incapace di riflettere vertigini.
Un inno all’amplesso, al viaggio, alla latitanza.
Uno stillicidio d’invocazioni non abbracciabili dalla luce dei riflettori. Una  periferia interiore la cui supplica somiglia a un precipitare piovano schiodato da nubi di promiscuità e solitudine.

 

 

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