“Era come se il mondo che avevo sempre tenuto fuori dalla porta avesse davvero trovato la chiave e fosse entrato. Era qui.”
La seconda porta (Baldini+Castoldi), nelle librerie da domani, è scritto con uno stile elegante, mimetico e realistico, ma contiene, come altre opere di Raul Montanari, basti pensare al precedente La vita finora (2018), almeno alcuni elementi di “quasi magia” come la seconda porta del titolo.
L’autore, con una trama ambientata a Milano in cui entrano in gioco personaggi e situazioni molto attuali, migranti e scafisti, riesce ancora una volta a creare un romanzo di forte impatto emotivo, dove non tutto quello che appare è come sembra.
Milo Molteni, il protagonista e io narrante, abbandonato dalla convivente da ormai cinque anni, è il direttore creativo in un’agenzia pubblicitaria, che ha fondato insieme a un amico, e poi decide di acquistare l’appartamento sopra il suo, e con questa premessa molto semplice Montanari imbastisce un’opera favolosa che lo conferma come il più grande cantastorie di trame intime della letteratura italiana; non manca una storia d’amore, di forte carattere erotico, che affascina e irretisce il lettore. Infine occorre menzionare la comparsa del personaggio, incontrato per la prima volta in “Strane cose, domani” (2009), ovvero l’ineffabile investigatore Ric Velardi che funge da deus ex machina per gli ingarbugliati meccanismi della storia in cui, come nella vita, abbondano le menzogne: un grande e potente romanzo che vi porterete dentro a lungo.
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La notte fra sabato e domenica riuscii ad addormentarmi a un’ora decente, l’una e mezza.
Sognai di essere andato a trovare i miei genitori nella loro casa in Liguria, dove ormai da anni si erano trasferiti per invecchiare in pace. Il mare però mi sembrava piuttosto quello della riviera romagnola dove mi portavano da bambino.
Camminavo nell’acqua bassa, poggiando i piedi su un fondo sabbioso e uniforme, e mi allontanavo lentamente dalla sponda. L’acqua arrivava appena a bagnarmi le ginocchia. Ogni tanto mi voltavo e vedevo mia madre e mio padre sulla spiaggia, seduti sui loro asciugamani sotto un cielo grigio e compatto. Li salutavo e mia madre sorrideva, mentre mio padre leggeva il giornale tenendolo alto davanti alla faccia. Nel mare deserto non c’era nessuno. Ma anche la spiaggia era vuota, gli ombrelloni abbandonati, le sedie a sdraio libere tutt’intorno ai miei genitori. Solo in lontananza scorgevo una figura che correva, correva sulla battigia e si faceva sempre più piccola.
A un tratto sentii un rumore. Non capivo cosa fosse. Non era un suono che mi aspettavo, lì in mezzo. Il rumore si ripeté, era come il battito di un cuore. Mi voltai di nuovo verso la spiaggia ma mia madre non c’era più. Il grande asciugamano colorato portava l’impronta del suo corpo ma lei se n’era andata. Lì accanto c’era ancora mio padre con il giornale davanti alla faccia. Provai a chiamarlo ma non mi sentì. Il suono si ripeté. Devo uscire dall’acqua, pensai. Cominciai a tornare indietro, stretto in quella inquietudine improvvisa. Sollevavo spruzzi, avrei voluto correre ma l’acqua si incollava alle gambe e i piedi sprofondavano nella sabbia. Chiamai ancora mio padre, senza che lui abbassasse il giornale. Ma era mio padre, quello? Vedevo bene le mani, le ginocchia, le gambe una stesa e l’altra piegata, e non mi sembravano le sue. Quello era il corpo di un uomo più giovane di mio padre. Gridai qualcosa che forse non era nemmeno più il suo nome. Il giornale fremette fra le mani dello sconosciuto. Stava per scostarlo, ora l’avrei visto, pensai, mentre l’inquietudine diventava paura e quel suono ovattato attraversava l’aria.
Mi svegliai.
Aprii gli occhi nel buio: qualcuno stava camminando nell’appartamento sopra il mio. Ne ero sicuro. Si era tolto le scarpe e camminava scalzo. Era questo il rumore che sentivo nel sogno.
Forse il figlio dei vicini era tornato? Si era accorto di aver dimenticato qualcosa di importante?
A tentoni trovai l’iPhone: le due e mezza. Possibile che sia lui, a quest’ora? Rimasi immobile, in ascolto. I passi sembravano cessati, ora. Restai così per diversi minuti, ma sopra era tornato il silenzio.
Dopo un attimo di esitazione, mi alzai. Indossai i jeans sui boxer e uscii a piedi nudi sul pianerottolo, tenendo in mano il mazzo di chiavi dell’appartamento dei Mattei. Salii le scale senza accendere la luce mentre la mia fantasia si popolava di fantasmi, assassini e mostri, come quando ero bambino e i miei mi mandavano in
soffitta a prendere qualcosa. Anche l’appartamento dei Mattei era stato una soffitta, forse; forse le anime nere dei due vecchi erano tornate lì dentro, o non erano mai uscite.
Mi fermai davanti alla porta e accostai l’orecchio al legno. Silenzio. Infilai la chiave nella serratura ed entrai, cercando l’interruttore con la mano.
All’inizio non lo trovai e dovetti reprimere l’impulso di tornare indietro, ma dopo pochi secondi la lampada sul soffitto illuminò l’ingresso, il soggiorno dove i mobili giacevano smontati, rovesciati, sventrati, e la polvere sollevata dai ragazzi aleggiava ancora nell’aria.
“Giancarlo?” chiamai a bassa voce. Nessuna risposta. Che senso avrebbe avuto che Giancarlo fosse lì dentro al buio?
Girai per le stanze, accendendo le luci una dopo l’altra. Sembrava tutto in ordine. In disordine, in realtà, perché le operazioni di sgombero erano state interrotte; ma non vedevo niente che giustificasse i rumori che avevo udito. E se fossero stati nel sogno, quei rumori? A me era sembrato di sentirli anche quando ormai avevo aperto gli occhi. Ma forse credevo di essermi svegliato e invece per qualche istante ero rimasto prigioniero nell’incubo della spiaggia, dell’uomo sconosciuto che aveva preso il posto di mio padre. Guardai in bagno, in cucina. Infine arrivai al ripostiglio e lì c’era la piccola porta scura. La seconda porta.
Allungai la mano, girai il pomolo e la porta si aprì.
© 2019 Baldini+Castoldi
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