Rifletti sulla felicità “grande e dolorosa”, pagina novantasette, lo scrittore è Marek Hlasko. Ancora lui. Officia laconicamente – ogni pagina te lo dimostra – la celebrazione per intero del dolore dei mentecatti.
Mentecatti come Wladek. Aitante. Bianco. Polacco. Ma rotola tra una bevuta e l’altra nei suoi escrementi. Cosa farsene di una epifania, l’ennesima deludente e ruvida, di un tale esercizio della disdetta? Wladek era un miliziano, durante la guerra in Cecenia. Mercenario.
Nelle risse, con il siberiano, era inarrestabile come un tank, fino alla fine. La violenza cieca raggiungeva uno spasimo efferato, nella bottiglia che finivano, con il sangue tra i denti.
Così ridevano sgangherati, come piccoli bastardi della stazione di Kiev, topi di fogna, buoni solo a sollevare il mondo nella nefandezza, sollevarlo e scalciarlo alla fine con disprezzo.
Wladek entrava al bar con il siberiano, marmorei, all’apparenza. Una vodka grande, amico. Diceva Wladek al banconista, sorridendo. Le donne amavano Wladek e anche il siberiano, un certo tipo di donna, la megera del postribolo sovietico per esempio. Il siberiano aveva i denti d’oro. Quando sorrideva era una minaccia o era come sentirsi senza uno straccio addosso, con l’unico desiderio di lanciarsi nel buio. Crepare per la disperazione di non trovare la strada d’uscita e non volerla trovare tutto sommato. Il siberiano o Wladek erano una perfidia, nel loro stesso modo di esistere, una lusinga, il colpo di coda mefistofelico.
Il siberiano allargava i gomiti sul bancone, beveva – un bicchiere dietro l’altro – il liquido bianco.
Vodka siberiana.
Uno dietro l’altro. Fino a franare pateticamente con il mento sul bancone. Gli indigeni erano cattive persone. Sì, poco comprensive. Trascinavano il siberiano e Wladek come sacchi di mondezza. Finché i due non si risvegliavano all’improvviso, ed erano una furia. Ed erano casini. Era meglio che andassi via. Talvolta restavi. Ed era un casino.
E tu eri una puttana. Lo mormoravano gli indigeni nel dialetto cavernoso che traduceva la peggiore delle miserie: il risentimento misto all’ignoranza.
L’indigeno è una cattiva persona. Il siberiano siede per terra, sbattuto con maleducazione per terra. Guarda da giù l’italiano, sputa sangue. Alza il braccio con un pugno.
“Skuurwielo. Chczesz jeszcze!”. Italiano di merda, ne vuoi ancora!
Wladek urla poco più in là. Vuole rialzarsi, la strada brucia, brucia maledettamente.
Cos’è la felicità? Chieditelo. Cos’è se non una pace straziante e dolorosa.
E questa è un’assurdità, una rielaborazione pigra, non comprovata, di un’osservazione altrui.
Chiedi cosa sia la felicità a chi ne abbia infranto le condizioni.
Ti guardi intorno e arrivi persino ad amare quel caos indolente, apocalittico. Pensi che la tua stabilità è la compartecipazione di un caos, questo tacere ad ogni vituperio realizzato nell’istante in cui accade, in cui ti travolge. E tu sei compartecipe del dolo immaginifico.
Il siberiano ha la camicia strappata. Noti Wladek lanciare la bottiglia contro il gruppo di indigeni. Sei come ipnotizzata dal casino, dalla disarmonia, ti viene da ridere. Un fisarmonicista rumeno chiede spiccioli ai passanti terrorizzati. Tu indossi un vestito, nero, lungo fino alle caviglie, di pizzo, hai un rossetto viola. Sei paurosa.
Sei una puttana.
Non è vero.
Gli altri lo penseranno, come il cavaliere dell’interno uno, nel condominio della creaturina.
Lasci i giardini. Cammini sotto il sole viscoso di un giorno di un mese che non ricordi. Guardi a terra, conti i passi fino in casa della creaturina, preghi in cuor tuo che il professore ti lasci entrare. Devi mollare tutti i casini del mondo, non sai dove, la casa della creaturina ti sembra il posto migliore.
Il mondo – pensi accecata dall’irresolutezza della tua enfasi giovanile – il mondo dicevo ti sembra sempre più spesso uno spazio scomodissimo.
Eccolo, il palazzo, il terzo piano, la creaturina ha la stanza con gli scuri accostati. Guardi al piano. Alla finestra noti la colomba e un vaso di gerani. Così sorridi.
***
La colomba ha costruito il nido sul davanzale della finestra della creaturina. In stanza con la creaturina c’è il fratello, il professore, ascoltano assorti il biondino del campo, un kosovaro che mendica qualcosa. Il professore non beve tutte le balle che raccontano gli zingari del campo. Sai come ti dice Sofia se la chiami zingara: te rompo culo. Ti dice.
Wladek viveva in un sobborgo di una città a Sud del paese, la Polonia di un retaggio alcolico e rurale. E aggiungi alcolico quasi fosse il sommo connotato, da non dimenticare mai. L’equivalente identitario di una nazione. La ulica Manowska. Ulica, via. Strada. Angiporto. La ulica. Devi leggere la ci con il suono della zeta. Non ci giureresti ma ti par di ricordare che un identico biondino – in un racconto di Hlasko – faceva a botte con un tale commerciante ed era la medesima questione alcolica. Il biondino viveva nella terribile strada, la ulica Manowska, pronuncia la ci con il suono della zeta.
Mentre tu guardi verso il davanzale, la colomba solleva delicatamente il piumaggio, si ricompone, i gerani imperlano di lampi rossastri le ombre che si imperniano di un sole viscoso. Non ricordi di quale mese o anno. Non ricordi.
Era un giorno dentro anni capaci di sovvertire radicalmente, sterminare tutto quello che eri stata. E niente nemmeno dopo ti avrebbero concesso di recuperare. E ne eri lieta.
Oggi ti senti capita molto poco. La tua solitudine si avvita sempre di più nell’identico cardine dell’impossibilità. Ti pare che soltanto il poeta ti sia vicino per una faccenda di casualità e follia. Forse ti riconosce un merito, non barattabile con un sentimento. Potresti accontentarti. Ti riconosce il merito di un sacrificio che diventa elezione.
E questa concessione ti fa più sola, sempre di più, ancora di più, finisci a rovinare sui fianchi scoscesi di una rivelazione che non vuoi verificare.
Guardi al davanzale, sorridi. Indovini tutto sommato la possibilità di una pace che irrori da lassù, soltanto che non sempre la tua condizione di spirito è integra. Piuttosto è confusa, nella penombra della tua tendenza a disperarti. Forse ti hanno insegnato come si fa, l’imprinting, come per le papere e l’esperimento di Lorenz. Il primo volto che vedi, lo amerai. Lo imiterai. Forse hai visto quello, si è conformata davanti ai tuoi occhi, una icona che non conosci. Poi diventerà il tuo assillo, la pietra di inciampo.
Nel frattempo, il mondo si capovolge continuamente. Il siberiano è ingovernabile. Con lui, c’è Wladek, è quello che ha la meglio nelle risse. Gli indigeni sono bifolchi, tozzi, solidi, ma non all’altezza di professionisti mercenari.
Il siberiano era abile in molte cose, pure in certi stacchi sentimentali da toglierti il fiato.
Non ti amerà nessuno. E poi aggiungeva: come ti ho amato io.
Cos’era? Una fatwa?
Cosa?
Conti i passi fino in casa della creaturina. Tutti i tuoi passi sono contati nella Otre, le tue lacrime raccolte. Hai letto anni dopo, moltissimi anni dopo.
Suoni il campanello. Il professore non vuole aprirti. Sono sola gli prometti.
Sei sicura? Chiede al di là dello spioncino.
Lo prometti.