Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

B. Traven, Coriandoli il giorno dei morti

Home / Recensioni / B. Traven, Coriandoli il giorno dei morti

«Chi crea non dovrebbe avere altra biografia che la sua opera. Se l’uomo non può essere conosciuto attraverso le sue opere, allora o l’uomo non vale niente o le sue opere non  valgono niente.»

B.Traven

 

B. Traven, scrittore sconosciuto di bestseller e racconti, che pubblicò agli inizi del Novecento rimanendo nell’anonimato sino ad oggi, descrisse la sua riluttanza a dare spiegazioni sulla sua identità con queste parole:

«Le persone creative non dovrebbero avere altra biografia all’infuori dei loro lavori.»

La teoria più accreditata sulla sua persona è che in gioventù si chiamasse Otto Feige, giovane tedesco scappato alla leva militare, diventato successivamente attore e giornalista anarchico sotto lo pseudonimo di Ret Marut. L’unica certezza che abbiamo è che visse in Messico per anni, dove assunse l’identità di Hal Croves, traduttore ed editore incaricato di lavorare con il regista John Hughes al film del 1927. In Messico vi ambientò molte delle sue opere, tra cui il suo romanzo più famoso, Il tesoro della Sierra Madre, trasformato in un film che vinse tre Oscar nel 1949.

Coriandoli il giorno dei morti (Illustrato, introdotto e curato da Vittorio Giacopini, Racconti Editori), ambientata in un mondo che in quegli anni oscillava tra il moderno e il primordiale in cui la revolución e il capitalismo si combattevano per aggiudicarsi la guida del paese, anni in cui la grande letteratura Sudamericana fa la Storia, è una tra le sue raccolte di racconti più affascinanti. Con uno stile favolistico e simbolico è conosciuto per le sue avventure marcatamente anticapitaliste e anarchiche, dove racconta di personaggi ordinari ma che allo stesso tempo incarnano l’umanità stessa, nella sua complessità e nel suo vivere quotidiano.

E’ un ottimo libro in pieno stile Traven, Coriandoli il giorno dei morti,  ironico e arguto. Una serie di racconti per immergersi nel suo mondo narrativo che per nostra fortuna è l’unica cosa che sappiamo e che dobbiamo sapere di lui.

Ne pubblichiamo un estratto.

#

 

La mia visita allo scrittore Pguwlkschrj Rnfajbzxquy

E all’improvviso eccolo qui, il prodigioso scrittore, l’innovatore Pguwlkschrj Rnfajbzxquy. Tanto inaspettato e istantaneo quanto la vita stessa, alla stregua dei veri geni. Come soltanto chi fornisce precoci avvisaglie di un talento emergente, per non dire di un consistente senso di trasversalità attraverso le generazioni e in ultima analisi, addirittura, di perseveranza ed etica del lavoro, era lontano dal genio quanto il bastardino con l’olfatto più acuto è lontano dal proprio bersaglio. La prova, contro l’impareggiabile forza e inoppugnabilità della quale mi scontrerei del tutto invano: quattrocentomilasettecentoquarantatré articoli commemorativi scritti da ottomiladuecentoventisei storici della letteratura diversi, tutti condannati dal fato a scartabellare il calendario alla morbosa ricerca di ogni data di nascita, morte, matrimonio, e battesimo; ulteriore segnale: due recensioni entusiastiche sulla Schnupstrall Gazette.

P.R. comunque (e spero che non mi si chieda di dover ribattere ogni volta un nome così arrovellante per esteso, per grazia mia e del povero tipografo) P.R., dicevo, si guadagnò per la prima volta i riflettori con un breve e nondimeno essenziale racconto pubblicato su The Hypperia, rivista mensile familiare alle persone di una certa raffinatezza (i suoi editor, per la maggior parte). Lascerò che siano altri, ora, a speculare su quanto il nome della rivista abbia a che fare con un’intensa frequentazione con l’isteria nelle sue principali manifestazioni. Non una singola persona era capace di capirci qualcosa della storia di P.R. (credo di essermi già espresso sulle ragioni per cui scrivo solo P.R.) e poiché nessuno ci si raccapezzava, poiché ogni persona dotata di raziocinio si era limitata a queste due sole parole d’apprezzamento – Pattume! Pattume! – solo per questo motivo c’erano già un tre quarti di dozzina di esperti pronti a prostrarsi in segno di reverenza davanti al nostro scrittore. Che tre quarti di dozzina di esperti sia ancora in piedi, tra l’altro, è la prova inconfutabile, ancor più di ogni statistica, che la guerra in corso non stia riducendo tutto alla rovina, e nemmeno stia forzando mezzo mondo a riesaminare le proprie convinzioni. Una volta che suonò la tromba, comunque, ne seguì che tutte le migliori riviste e i migliori giornali si ritrovarono col tempo obbligati, con o senza ripensamenti, a pubblicare, in ossequio ai desideri spesso manifesti dei loro abbonati regolari e di lunga data, racconti, sketch e poesie partoriti dalla mano di P.R.

Quale che fosse il numero che si provava a sfogliare, era scontato che avrebbe contenuto qualcosa di P.R. e chiunque, anche il più persistente degli abbonati, dopo aver voltato l’ultima delizia firmata da lui avrebbe detto a se stesso: «Be’ non saprei dire se lo scemo sia io o il critico Gotthold Murschenbursch, ma non capisco una singola parola di quanto sta scritto qui dentro. Per la verità non ho mai letto tante idiozie, non che abbia il coraggio di dirlo ad alta voce, sia chiaro. Ma se le mie impressioni sono giuste allora è più probabile che sia proprio io il più grande scemo del mondo, cosa che non avevo ancora capito, visto come me l’ero cavata sin qui coi miei affari».

P.R. lavorò sodo e a lungo. Vennero recitate le sue opere, e fecero così scalpore che adesso era ugualmente impossibile capire di che parlassero i suoi critici, cosa che divenne l’ultima enfatica conferma dell’incontestabile fatto, di lì in avanti, che bisognava giocoforza rimanere scemi, e che non c’era da aver speranza di condividere alcunché in quella caccia al tesoro che è la letteratura contemporanea.

Dopodiché arrivò una così grande inondazione di romanzi, racconti, tragedie, sketch, aforismi, e poi poesie d’amore e di guerra vissute con una tale intensità che si poteva rimanere soltanto esterrefatti dalla prodigiosa fecondità di un siffatto poeta e immenso intellettuale che pareva regnare da vette infinite di inavvicinabile esilio. Perché davvero regnava in esilio. Nello spirito si ergeva al di sopra delle fallacie dell’uomo come fosse stato folgorato da qualcosa. Aborriva ogni contatto col becerume della massa, e l’aureola che ne copriva il capo lasciava le donne e gli altri innovatori pericolosamente esposti al sospetto che soffrissero di una mania pressoché religiosa. Certi dovettero essere trascinati nelle case di cura dove tutt’ora albergano, credendosi colti dal lampo d’ispirazione di P.R. E che sia onere di qualcun altro più dotato di me in ambito medico fornire una versione edulcorata, e nondimeno efficace e intellegibile, delle peculiari forme ed espressioni assunte dalle allucinazioni maniacali di chi si è creduto colto da un lampo d’ispirazione dello scrittore P.R. La mia immaginazione è infatti impari rispetto al compito e, per quanto possa sforzarmi, non potrei che restituire una goffa imitazione della realtà dei fatti.

Certi pettegolezzi, un giorno, cominciarono a circolare, nessuno sa come né da quale agenzia, che P.R. (e ho già spiegato più di una volta perché mi limiti a queste due lettere) giacesse malato in procinto di morire, privo di conforto umano al suo capezzale, poiché nessuno dei suoi fedeli contemplava anche solo l’idea di approssimarsi all’aura annichilente della sua maestosità – tale da rendere Apollo in persona niente più che un ammasso di metallo ammaccato. Io però sono di altra pasta, non ho fede in P.R., e per questo riesco a sottrarmi impunemente alla sua aura. Così venni scelto per andarlo a trovare e dunque comunicargli nell’ora della sua dipartita tutti gli omaggi e i ringraziamenti che la mandria infangata ai suoi piedi gli dedicava, oltre che per prestargli soccorso durante i suoi ultimi sospiri e prendere così nota delle sue parole di commiato per preservarle nei millenni a venire. Non essendo segreta la mia mancanza di fascinazione per P.R. venne apprezzato il fatto che nessuno avrebbe potuto mantenere più obiettività del sottoscritto nello stargli accanto, senza particolari fronzoli o imbellettamenti, durante le esternazioni finali di quel sì prodigioso intelletto. Così, servendomi di certi incomparabili sotterfugi, di travestimenti da idealista, equivoci stati di fermo in qualità di spia, e numerose incursioni in pericoli mortali, annegamenti, inedie, palpitazioni e coscrizioni coatte, finalmente riuscii ad accaparrarmi l’indirizzo di P.R. Viveva in una regione boschiva lontana dal tram tram della città, isolato dalla malevola curiosità del mondo, riparato dalle alte muraglie di tal Restingstones Manor, circondato quest’ultimo da piccoli e pittoreschi cottage ricoperti d’edera, ognuno al centro del suo bel giardinetto.

Il nome stesso era fonte di conforto, e non appena mi avvicinai al Restingstones Manor mi sentii davvero in pace col mondo. «Mi perdoni», domandai, «è per caso questa la residenza di Pguwlkschrj Rnfajbzxquy?» «Ebbene sì» fu la allegra riposta, «sebbene il nome del paziente sia in realtà Paul Rubensessel.»

Presi allora quell’espressione simpatetica che è assolutamente indispensabile quando emerge la parola «paziente» e quindi incalzai: «È in gravi condizioni?».

«Non più del normale. Rispetto ai cinque anni che è stato qui…»

«Cosa?» strillai colmo d’agitazione. «Cinque…»

«… Anni, proprio così. All’inizio era stato classificato al terzo stadio, così l’abbiamo messo a rammendare le scarpe, dato il suo passato da calzolaio. Poi però ha iniziato a scrivere per i giornali, e quelli gli hanno dato tanti soldi che si è potuto permettere una casa tutta sua insieme a due infermiere private. Sul serio, ha gli stessi privilegi del conte Hegelsdorff, e la sua fortuna è pari a milioni! Comunque a noialtri come il paziente occupa il proprio tempo non interessa, l’importante è che sia felice.»

«Sì» dissi del tutto confuso. «Non capisco.»

«A dire la verità neanche noi» disse il primario. «È il classico esempio di come sia impossibile decretare se ci siano più matti là fuori che qui dentro.»

«Un attimo, un attimo!» gridai. «Ma dove diamine sono finito?»

«Alla casa di cura per dementi incurabili. Ma come… non lo sapeva?»

«Proprio no. E Herr Pguschwlksch – per l’agitazione non ero più in grado di arrotare la lingua attorno al nome che così bene sapevo dire in precedenza – e Herr Pguw…»

«Herr Rubensessel, dice? È da tre anni che lo riteniamo incurabile, e da allora è membro permanente della nostra comunità. Del tutto inoffensivo fintanto che non scrive, in ogni caso completamente paralizzato, appena entrato al quarto stadio.»

Basito com’ero, non potevo che restarmene lì. L’aura di P.R. mi aveva trafitto.

Così il dottore aggiunse: «Certo avrà già capito quanto era partito dai suoi scritti, ma se ha ancora dubbi non ha che da sentirlo parlare dal vivo. Intende vederlo?»

Declinai l’invito e mi ritirai arretrando fra i fedeli.

Avrebbero fatto meglio a non fidarsi della mia obiettività: non potranno farci troppo affidamento, visto che non avevo nessuna voglia di farmi lapidare o di vedere il mio corpo gettato in pasto ai cani. Con tutto il rispetto, né P.R. né la razionalità dei suoi affiliati «nel mondo di fuori» valgono tanto per me.

E se così dovesse essere è solo colpa loro.

Click to listen highlighted text!