Lasciate che mi presenti: Marco Polo, veneziano, nato nell’anno 1524 dall’incarnazione di Cristo, figlio di Niccolò Polo e Nicole Anna Defuseh, nipote di messer Matteo, della Ca’ dei Polo che compì viaggi per il vasto mondo, dalle Indie alla Tartaria, e più in là ancora, autore del libro detto Il Milione, di cui questa sera udirete il racconto. E andò così…
Gianluca Barbera lo abbiamo lasciato appena più di un anno fa con Magellano – fortunato e indovinato ibrido tra romanzo storico e romanzo d’avventura – e lo ritroviamo adesso con Marco Polo (pubblicato sempre da Castelvecchi), ulteriore salto in avanti nel suo personalissimo percorso di narratore. Dico personalissimo perché ho l’impressione, dopo tre libri – il primo era La truffa come una delle belle arti – che Barbera sia riuscito a trovare una formula tutta sua all’interno di un genere che ha una lunga, lunghissima tradizione.
Non è infatti un romanzo storico, o almeno non lo è in senso stretto, è piuttosto un romanzo sulle leggende che la Storia produce. E allo stesso modo non è un romanzo di avventura, o forse lo è come può esserlo Cent’anni di solitudine, se per avventura intendiamo il perdersi del lettore in una girandola di visioni, accadimenti straordinari, sogni. Pur recuperando moduli narrativi di entrambi i generi – quasi un’operazione archeologica, quella di Barbera -, l’uso del linguaggio e una continua riflessione sul rapporto tra realtà e finzione ne fanno qualcosa che va oltre le definizioni di genere. È Salgari che incontra Borges. Il suo è un raccontare di gente che racconta, quasi che sia quel gesto stesso – il raccontare – a tenere insieme il mondo.
“E mi sono perso tutto questo?” feci.
“È solo un racconto, Marco” disse mio padre.
“Ma vale oro” risposi.
Marco Polo racconta.
Ecco, la trama del nuovo romanzo di Gianluca Barbera è tutta qui. Sembra una provocazione ma non lo è. Marco Polo gira da una corte all’altra, da un auditorio all’altro, e racconta la propria storia, ripropone le avventure de Il Milione a un pubblico sempre diverso e sempre rapito. Sono avventure inverosimili, al limite dell’impossibile. Il raccontare di Marco Polo – e quindi di Barbera – si muove su una modulazione che si ripete quasi ossessiva, come un ritornello: si attraversano fiumi, montagne, luoghi veri e luoghi meravigliosi, ne vengono riportate tradizioni, modi di vivere, leggende. E intanto che la narrazione procede, un dubbio si fa pian piano strada nel lettore: Marco Polo è davvero chi dice di essere? Piccoli indizi – ma nemmeno troppo piccoli – iniziano a minare questa certezza. Ma in fondo, Barbera ha abituato i propri lettori a fare i conti con la truffa, la dissimulazione, con narrazioni che sono “un falso”.
Mi sono chiesto, a lettura finita, come si fa a dirlo un libro così? E ho pensato allora a una lunga camminata in un corridoio tutto dritto – marmo per terra, bianchi i muri -, e alle pareti dei quadri che a guardarli prendono vita: ogni quadro riproduce un episodio di un’unica grande storia. Anzi, meglio ancora della camminata, direi una corsa. Perché in un attimo, e da subito, si viene lanciati in un susseguirsi di eventi e fatti che trova pochissime pause. Il ritmo del romanzo rimane infatti altissimo fino al sorprendente epilogo. Che poi così sorprendente forse non è, ma è l’epilogo giusto, l’unico possibile.
Alla fine della corsa, una volta chiuso il libro, resta su tutte una certezza: il grande falsario è lui, Gianluca Barbera. E ancora una volta ha costruito un libro sulla bellezza e la potenza delle storie, sull’importanza del raccontare, sull’idea che i libri sono mondi in cui è bello perdersi.
Edoardo Zambelli
Recensione a Marco Polo, di Gianluca Barbera, Castelvecchi, 2019, pagg.176, euro 17,50.