Andre Dubus non scriveva romanzi. Dopo quello d’esordio (the Liutenant, di prossima traduzione) e Voci dalla luna (Mattioli 1885, uscito nel 2012) – che ha la struttura di un lungo racconto più che di un romanzo – il suo amore per la short story è diventato una devozione. Così leggendo Vasi rotti la raccolta di scritti autobiografici in libreria in questi giorni per Mattioli 1885 nella traduzione di Nicola Manuppelli, si ha subito l’impressione che sia la via che Dubus ha scelto anche per la sua autobiografia: quadri luminosi e oscuri, profondi, complessi e prospettici di alcuni momenti chiave della sua esistenza.
Dirigo Mattioli 1885 e pubblico Dubus ormai da dieci anni, per cui posso essere di parte, ma certo è che Dubus, per chi ha la fortuna di conoscerlo, è un rifugio sicuro. Se c’è una forza che risulta evidente anche a chi non lo ama è la compattezza della sua opera, come se anche l’evoluzione della scrittura, dell’uomo e dello scrittore, fosse già parte di un disegno prefigurato.
Tutto torna, nel tempo, racconto dopo racconto, a volte perfino i personaggi, come accade per le figure che animano i tre racconti riuniti nel meraviglioso Non abitiamo più qui, (poi trasposto per il cinema nel bel film I giochi dei grandi), due coppie di amici che tornano più volte nella produzione di Dubus a distanza di anni.
Ecco che non stupisce ritrovare in questi saggi lo stesso passo, le stesse immagini, gli stessi fondali. L’unità dell’opera abbraccia infatti anche questi scritti a volte dolorosi, a volte pieni di speranza.
Dubus non ha avuto una vita semplice, per anni ha lavorato senza il successo che secondo tanti meritava, accontentandosi poi di un riconoscimento in chiave minore, affezionandosi a un piccolo editore che non tradirà mai, ritagliandosi il suo spazio e soprattutto la sua libertà espressiva.
C’è una serie di testi nella raccolta dedicati proprio a questo, al suo rapporto con i racconti e al suo scarso interesse per i romanzi, ai suoi rapporti con Godine, l’editore che pubblicò quasi tutti i suoi libri, e ai suoi rapporti con gli editori in genere. Non mancano però i ricordi d’infanzia, il mito del baseball che lo ha accompagnato nell’adolescenza, la famiglia, prima e dopo la tragedia che lo ha devastato ancora giovane, relegandolo su una sedia a rotelle.
È un passaggio della sua vita che viene raccontato in queste pagine preziose con un’intensità dolorosa: l’incidente è al centro di tutti i saggi finali della raccolta, descritto, analizzato, rivissuto sulle pagine. È la parte più dolorosa, quasi insostenibile, per il lettore così come per lo scrittore.
Nell’anticipazione che trovate qui, un saggio intitolato Una donna in aprile, la disabilità è presente, ma in una chiave più stemperata, che ce la rende tollerabile – mentre in alto si apre una speranza calda e luminosa “come il caldo cielo illuminato dal sole: per noi, per la fine dell’inverno, per le infinite possibilità del cuore umano.”
E questo è Dubus: un autore che fa della sua intensità un modello espressivo, che scava e ritorna a scavare e che per raccontare tantissimo non ha bisogno di un romanzo.
Paolo Cioni
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Il 25 aprile del 1988 a New York era una giornata calda e limpida, e grazie all’ora legale il sole brillava ancora in cielo dopo cena e per tutto il tragitto dal ristorante al Lincoln Center, dove eravamo attesi per le otto. Per arrivare dal ristorante al Lincoln Center si doveva passare lungo una serie di marciapiedi – tutti delimitati da un cordolo e senza scivoli – e strade trafficate. Ero con il mio amico David Novak e il mio amico e agente, Philip Spitzer, che spingeva la mia sedia a rotelle e la faceva salire e scivolare giù dai marciapiedi, mentre guardavo le griglie e i parabrezza delle auto. Chiamo David il Comandante perché è stato un tenente della Marina, poi capitano in Vietnam, e ha guidato le truppe in combattimento; e dunque mi sento come di un rango inferiore, sebbene sia stato capitano in tempo di pace quando lui era ancora un civile. Philip è per me il fratello che non ho mai avuto.
Philip, ovviamente, è quello che vive a New York. Non io, per fortuna. E nemmeno il Comandante. David vive qui in Massachusetts; era arrivato in auto a New York con la moglie quel giorno, un lunedì, così come avevamo fatto io, mia figlia Suzanne, mio figlio Andre e alcuni amici con altre due vetture, perché quella sera io e Andre dovevamo partecipare a un reading al Lincoln Center insieme a Mary Morris e Diana Davenport. In Massachusetts la primavera era fredda e con pochissimo sole, e quel pomeriggio, da qualche parte in Connecticut, il sole aveva improvvisamente fatto capolino, e presto gli alberi lungo la strada si erano colorati del verde delle foglie, che da noi a casa sembravano essersi nascoste, semplici boccioli che promettevano di crescere.
Verso le otto in punto il cielo era ancora azzurro e il Comandante spinse la sedia a rotelle lungo l’ultima strada, poi la ruotò, la inclinò all’indietro e la fece salire su per i gradini fino alla Plaza fuori dal Lincoln Center. Iniziammo ad attraversare il pavimento di cemento bianco grigiastro e, mentre Philip parlava e indicava in alto, guardavo gli alti edifici che fiancheggiavano la piazza, angoli grigio-bianchi, del colore della città, che si stagliavano contro il cielo, che adesso era un po’ più scuro, ma non molto, ancora di quell’azzurro luminoso della primavera dopo un inverno così lungo di giorni brevi, trascorsi a letto, sulla sedia a rotelle, a fare terapia, in tribunale a divorziare da mia moglie e a dire addio alle mie due bambine. Philip ci raccontò di un francese che l’anno prima aveva passeggiato, senza una rete di protezione, su una corda sospesa nello spazio che separava quegli edifici.
Poi osservai le persone che camminavano sulla Plaza. I miei unici bei ricordi di New York sono quelli dei momenti trascorsi a osservare la gente che cammina per le strade e la gente nei bar e nei ristoranti e poi alcune mangiate o bevute con gli amici, e tutte le volte che mi vedo con Philip. Ma un’estate ho trascorso cinque giorni con lui e per la prima volta ho visto veramente i senzatetto giorno dopo giorno e sera dopo sera, e da quel momento, tutte le volte che sono stato lì, sono stato cosciente che la New York in cui mi trovavo, gli attici, gli appartamenti e i taxi e i ristoranti, non erano New York, più di quanto la Russia dello zar fosse la Russia dei servi liberati di Cechov, con le loro speranze distrutte molto prima che nascessero. Eppure, quel lunedì di primavera, mi divertii a osservare i volti sulla Plaza.
Come Boston, New York dispone di un’infinità di belle donne da guardare, anche se a New York le donne, in generale, si truccano in modo più pesante e vestono in modo più consapevole; c’è qualcosa di ottuso nei loro cosmetici e vestiti, quasi avessero finito per convincersi che sedersi davanti a uno specchio con pennelli, tubetti e fiale e indossare un vestito di un certo taglio e colore possa conferire loro nuova energia e avviarle nella lunga marcia verso una realizzazione spirituale. E a New York le donne camminano sempre a passo svelto, come se stesse piovendo, mentre a Boston passeggiano. Ma in fondo, la maggior parte dei newyorkesi cammina come se stesse piovendo, e a passeggiare rimangono solo gli agenti di polizia, le prostitute, i mendicanti, i vagabondi senza tetto, e gli adolescenti che sono ancora rilassati, liberi dalle preoccupazioni che angustiano così tante persone a partire dalla più grande paura: quella della solitudine e della morte.
C’erano delle donne sulla Plaza, che rallentavano il passo mentre si avvicinavano all’edificio, e guardando alla mia destra ne vidi una adorabile. Era sulla trentina, o al massimo potrei sbagliarmi di cinque anni in più o in meno. Indossava una minigonna marrone scuro, o forse nera; solo per un momento osservai la gonna e le sue gambe scattanti dentro le calze a rete, perché si trovavano nel mio campo visivo dalla sedia a rotelle. Ma in una donna, è il viso ciò che amo. Era di profilo e aveva morbidi e folti capelli castani che ondeggiavano sulle sue spalle mentre procedeva di buon passo, decisa ma senza fretta, semplicemente con grazia. Era a poco più di una decina di metri di distanza, abbastanza lontana perché, alzando lo sguardo, potessi vedere il suo volto contro lo sfondo del cielo.
“Comandante” dissi. “Spingimi accidentalmente contro di lei.”
Le sue braccia e le sue gambe continuarono a muoversi in avanti; ma si voltò di scatto verso di me e, altrettanto di scatto, le sue labbra si spalancarono in un sorriso, il viso si ammorbidì, e così anche i suoi occhi, e il tono della sua voce, come se qualcosa le si fosse sprigionato dal cuore tutto d’improvviso. “L’ho sentita” mi disse.
Era girata verso di me e continuava a sorridere, e gli occhi le brillavano.
“Era un complimento” dissi.
Il Comandante stava spingendo la mia sedia, Philip era accanto a me e lei si stava avvicinando. Poi disse: “Lo so.”
Riprese la sua strada, come se questa fosse dipinta sul suolo affinché lei la seguisse, e Philip disse: “È la prima volta che vedo succedere una cosa simile a New York.”
“È la sedia a rotelle” dissi. “È stata gentile perché sono innocuo.” Ma sapevo che non era vero. Non c’era tempo per spiegarlo allora, e comunque volevo assaporarmi da solo e ancora per un po’ il dono di quella donna, prima di abbandonarlo alle parole.
Vivere da paralitico ti permette di vedere con più chiarezza i cuori paralitici di alcune persone i cui corpi sono integri e sani. Tutti noi, di volta in volta, soffriamo di questa paralisi. Alcuni ne soffrono ogni giorno e ogni notte; e anche se la maggior parte di noi, quasi tutti, possiede dentro di sé compassione e amore, non riesce o non vuole vedere le ferite a malapena visibili di altri esseri umani, ed è questo il motivo per cui non possiamo o non vogliamo telefonare a una persona o andare a trovarla a casa o scrivere un biglietto o fare qualche altro gesto apparentemente insignificante per dare a qualcuno ciò che solo noi, e Dio, possiamo dare: un’ora di tregua, o un giorno o una notte. E a volte più di una semplice tregua: a volte gioia.
Eppure, in una città i cui marciapiedi mostrano il fallimento dell’amore, l’incapacità di trasformare l’agape in una burocrazia, una giovane donna si è voltata verso di me, in un impulso di rabbia o orgoglio, e vedendomi su una sedia a rotelle non ha provato improvvisa pietà ma un’allegra comprensione. Per aver visto un proprio simile ferito, ha posato lo scudo e la spada che aveva imparato a portare (Asciugai le mie lacrime e armai le mie paure / Con diecimila scudi e lance, ha scritto William Blake), e con la luce del sole a dividerci, a tre o quattro metri di distanza l’uno dall’altra, il suo viso e la sua voce mi hanno abbracciato.
Perché c’è qualcosa di universale in una persona ferita: ripetutamente, per quasi due anni, il mio corpo ha tratto improvvisa tenerezza da uomini e donne che ho visto solamente in quei momenti della loro vita in cui mi hanno aiutato con le loro mani o il loro intero corpo o solo con gli occhi, le labbra e le lingue. Vedono, nel breve periodo trascorso con me, un uomo ferito, come potrebbero esserlo loro; un uomo che ha continuamente bisogno della cura degli altri, come potrebbero averne bisogno loro. Solamente i bambini mi fissano con una curiosità spaventata, come fanno nelle processioni funebri e quando sentono annunciare la morte di qualcuno; perché nel profondo dei loro cuori sanno che anch’essi moriranno, e sono convinti che diventeranno adulti, si sposeranno, avranno dei bambini a loro volta, eppure non riescono a credere che moriranno.
Ma io sono un particolare tipo di paralitico. A New York non me ne stavo seduto su un marciapiede, con la schiena contro un muro e decenni di sventure e sofferenze nel cuore. Non indossavo abiti sporchi su un corpo non lavato. Philip e il Comandante indossavano completi e cravatte. Io ero su su una sedia a rotelle da novecento dollari e attraversavo la Plaza diretto al Lincoln Center. Eppure, non chiedo a quella donna, vedendo il mio corpo, di fermarsi lì alla luce del sole, senza fare un movimento o spiccicare una parola, mentre come una marea che monta le giungono all’orecchio le voci di tutti coloro che soffrono nel corpo, nello spirito e in entrambi, e poi voltarsi davanti ai miei occhi incantati e tornare a casa sua e iniziare la mattina dopo a vivere come Madre Teresa o come Dorothy Day. No. Quella donna è una di noi, e ciò che ha detto e fatto quella sera di aprile è stato, come il caldo cielo illuminato dal sole, sufficiente: per me, per la fine dell’inverno, per le infinite possibilità del cuore umano.
1988
Una donna ad aprile – Tratto da Vasi rotti – Mattioli 1885. Traduzione di Nicola Manuppelli