Per Kobe
Il padre accompagnò la figlia di otto anni al campo estivo. Uno degli animatori era un ragazzo della squadra di basket. Il padre l’aveva già visto, era alto e dinoccolato e schiacciava con una mano sola.
Nonostante questo non riuscì a trattenersi e lo propose: – Uno contro uno?
Il ragazzo lo guardò poco convinto, poi gli passò la palla. – Vince il primo che arriva a sei.
Il padre annuì, si dette una modesta spinta con le gambe e provò a mettere un tiro da tre in sospensione. La palla rimbalzò sul ferro. Il ragazzo agguantò facilmente il rimbalzo, fece qualche palleggio e andò a schiacciare. Il padre dette un’occhiata alla figlia, che era retrocessa diligente a bordo campo e non si perdeva una mossa della partita. Era come in adorazione, ma non si capiva se di lui, del ragazzo o soltanto del gioco.
Il ragazzo si mise in posizione per un nuovo attacco e il padre pensò di dirgli una cosa umiliante quanto necessaria. Pensò di dirgli se “poteva lasciarlo vincere”. Sarebbe bastato un sussurro ma qualcosa in lui si ribellò: da giovane aveva giocato a buoni livelli; non era stato la stella della squadra, ma neanche il brocco che guarda la partita da fuori. Alla fine non disse un bel niente e riuscì a rubare la palla al ragazzo durante un giro in palleggio. In fondo il ragazzo non era granché come palleggiatore. Il padre si tenne lontano dal canestro, sapeva che quella era la sua unica possibilità di vittoria. Tentava una penetrazione e poi, quando il ragazzo ben piegato sulle gambe gli chiudeva lo spazio, rinculava verso la lunetta. Con pazienza, in maniera un po’ ripetitiva, riuscì a mettere tre tiri consecutivi da una distanza intermedia. Ok, erano stati attacchi pavidi ma gli avevano consentito di vincere.
“Ho vinto” gridò, in un rantolo.