Vi racconto una storia: una signora di ottantaquattro anni, che già da molto tempo mi domandava senza troppa insistenza se volessi dare un’occhiata alle sue poesie, un giorno mi chiese con più convinzione di leggerne almeno una, così, solo per farle un favore, e se poi non mi fosse piaciuta non mi avrebbe mai più scocciato. Eravamo a pranzo in un bel ristorante, al mare, in estate. Lessi la prima poesia, e rimasi di sasso: era bellissima, semplice e profonda, e il ritmo delle parole dava forza ai significati e alle emozioni. Insomma una vera poesia. Lessi le altre. Avevano la stessa forza e la stessa delicatezza, erano sincere, senza virtuosismi. Era il tipo di poesia che avrei sempre voluto scrivere, anzi che avevo provato a scrivere, con risultati pessimi. E adesso scoprivo che mia mamma non era solo mia mamma, ma era una poetessa sconosciuta, e che dal dopoguerra in poi aveva scritto sì e no una poesia all’anno, su foglietti e quaderni, senza nessuna pretesa, tenendo le sue parole in un cassetto. Finché, sulla via del tramonto aveva sentito il desiderio di farmi leggere i suoi versi, affrontando il rischio con la preoccupazione che il “figlio scrittore” sorridesse di tali puerilità, e che magari con imbarazzo facesse un gran giro di parole per non dirle quello che pensava. Anche io ero pronto a questa eventualità, e certamente mi avrebbe fatto male ferirla, dirle che in realtà i suoi scritti non erano poesia (quante ne leggo che altro non sono se non raccontini con molti capoversi). Non sarei mai stato capace di fingere, di lusingarla solo per farla contenta. Non riesco a mentire, nel campo della scrittura. Nemmeno a mia mamma. E invece scoprii che mi sbagliavo, che mi ero sempre sbagliato. Quel giorno decisi di copiare tutte le sue poesie e di mandarle a un direttore editoriale che stimavo, senza dire che erano di mia mamma. Così feci, e la risposta del direttore arrivò in pochi giorni: aveva apprezzato molto le poesie, e le avrebbe senz’altro pubblicate. Lo dissi a mia mamma, e lei sorrise: “A me bastava che piacessero a te…” Quando le spiegai che non le stavo “regalando” il libro pagando una tipografia per stamparlo, ma che era un vero editore a pubblicarlo, lei mi disse: “Non vorrai mica dirmi che sono piaciute anche a lui?” Aggiunsi che avrebbe addirittura ricevuto dei diritti d’autore, e lei mi guardò di traverso: “Non voglio soldi, darò tutto in beneficenza.”
All’inizio non volevo che si sapesse che Paola Cannas era mia mamma, per lasciare che il suo libro camminasse con le proprie gambe. Ma poi, dopo questa sua decisione, ho pensato che per dare più forza alla sua volontà potevo invece incuriosire i lettori dicendo appunto che lei era mia mamma. È uscito anche un bellissimo articolo di Gabriele Ametrano sul Corriere Fiorentino, che aveva intervistato mia mamma al telefono alla fine di febbraio del 2013, mentre lei era in un centro di riabilitazione. Adesso che mia mamma non c’è più (se n’è andata nel 2013) mi sento in missione per promuovere il libro.
Ho scelto un’associazione di amici, di cui mi fido completamente, che opera in Bangladesh, e così le poesie di Paola Cannas verranno trasformate in “bambini che sanno leggere e scrivere”. L’associazione si chiama Filo di Juta, (http://www.filodijuta.it), che con i primi proventi di questo piccolo grande libro, hanno fondato una nuova scuola in Bangladesh, intitolandola a Paola Cannas.
Lei ne sarebbe stata felice.
Ho ricevuto e continuo a ricevere dai lettori di queste poesie messaggi bellissimi, che purtroppo lei non ha potuto leggere. Posso aggiungere che alcune di queste poesie hanno avviato tra mia mamma e me dialoghi mai avuti prima, rivelandomi momenti della sua vita che non conoscevo, alcuni così personali e intimi che non racconterò mai a nessuno: teneri segreti da portare nella tomba.
Poi le sue poesie, così potenti, sono diventate le poesie della mamma del commissario Bordelli, che spesso, prima di addormentarsi, se le ripete in mente a memoria, come faccio anche io.
Marco Vichi
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Di seguito le poesie di Paola Cannas.
GLI AMICI
I vivi ormai
più non ti stanno accanto
e non ti fanno compagnia;
invano cerchi di fermare
il loro sguardo su di te,
stringere la loro mano nella tua.
I loro occhi volgono altrove,
si chiudono le dita su se stesse,
la fretta allontana i loro passi.
Ma ecco sulla sponda del tuo letto,
siedono, sorridendo,
i morti,
che pazienti ascoltano
ogni voce del cuore.
Dolce è la compagnia di chi non ha più fretta.
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NOTTE DI GELO
La luna
crudele
bagnava di luce
il soffice
biancore della neve.
Gente entrava nei caffè
illuminati.
Voci
s’intrecciavano nella via
guantata di gelo.
E io non volevo.
Rumore di scarponi nella neve,
musiche
fuggivano
dagli usci socchiusi.
Risate brevi
si infrangevano
contro i tetti bassi
delle case.
Il bosco era buio,
là oltre il paese.
La valle muta nel gelo.
E io non volevo.
La brezza
notturna
sfiorava il mio viso
con mano di gelo.
Io non volevo.
Il mio amore
morire,
così.
In una notte di gelo.
Io non volevo.
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AUTUNNO IN TOSCANA
Parlate, o mura dell’antica torre
e dite, quale sguardo posò
dalle finestre anguste
sull’oro della valle
così dolce e amica.
Voci di cavalieri antichi
e scalpitare di cavalli sul sentiero,
dove corrono adesso i miei bambini,
e canto di madonna,
che lieta contemplò le azzurre nebbie
e le dorate foglie della vita.
In un mattino quieto come questo
solo il gallo si sente,
solo ogni tanto uno sparo di fucile.
E lentamente il sole inonda la campagna
in questo autunno dolce come allora.
E i secoli son nulla.
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CREPUSCOLO D’ESTATE
Immobili gli olivi
giù nel campo,
luna nuova nel cielo
ancora chiaro.
La terra giace,
tiepida di sole.
Cantano i grilli,
il viottolo è deserto.
Esco pian piano dal cancello aperto,
avidamente bevo quel silenzio.
Guardo le stelle
e m’abbandono
al liquefarsi lento delle ore,
paga di andare per gli eterni spazi,
cullata dalla buona madre terra.
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L’ALBERO TAGLIATO
Hanno tagliato il ramo nuovo:
al pudico verde, dura la lama
balenava accanto.
Passi ignari calpestano per via
giovani foglie
che più l’albero non sanno.
Sogni nati al mattino,
a sera morti.
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SARDEGNA
Se il piede
un giorno affonderà
nella cocente sabbia,
se le mani grondanti ritrarrò
di azzurro mare,
mentre lo sguardo disegnerà
la costa,
allora vorrà dire
che son venuta a te,
mia vera terra,
Sardegna non mai vista,
sempre amata.
Allora,
come l’esule, prostrata,
bacerò le zolle aride assolate,
e poi tremando
accosterò l’orecchio
alle dischiuse labbra della roccia,
ascoltando la voce dei miei padri.
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LA RAGAZZA DEL METRÒ
La vidi sul metrò
con gli occhi di gazzella,
una ragazza dolce,
una ragazza snella.
La vidi sul metrò
era sola e pensosa;
in quel buio frastuono
pareva luminosa.
La vidi sul metrò:
sarà una ballerina?
o forse una modella?
So per certo che non è felice.
La vidi sul metrò
con gli occhi di gazzella,
una ragazza dolce,
una ragazza snella.
Paola Cannas