Una Milano in eterno movimento e cambiamento fa da sfondo alle vicende di questo Il giorno mangia la notte, romanzo di esordio di Silvia Bottani in uscita da SEM. Sotto la lente di ingrandimento le “gesta” di personaggi “ordinari”: Giorgio, che soffre di dipendenza patologica da gioco d’azzardo e da cocaina e alcol, Naima, giovane kickboxer di origine marocchine che fa l’insegnante di sostegno alle elementari, e Stefano, figlio di Giorgio, un praticante avvocato col vizio della militanza neofascista. Il quadro non è dei più tranquilli, ma le cose si complicano decisamente quando Giorgio decide di rapinare una donna per strada nel tentativo di risollevarsi dai debiti che lo affogano. Questo atto metterà in moto la macchina del destino, dando il via all’intreccio di storie, esistenze, persone. Un esordio solido quanto intenso quello di Silvia Bottani, che sa giocare con i temi dell’amore, dell’esistenza, della disfatta e della rivincita senza cadere in facili quanto semplificate soluzioni. La costruzione narrativa sta egregiamente in piedi, dando corpo a una galleria di personaggi “comuni” quanto indimenticabili.
Paolo Melissi
#
Grandi cose. Pensava a grandi cose Giorgio, mentre infilava i soldi nella fessura. Aveva strofinato la moneta da un euro sulla gamba per due volte, un gesto scaramantico che doveva propiziare la vincita. Si era guardato attorno, rimandando il momento in cui tentare la fortuna: cinesi che passavano dalle luci delle slot ai monitor degli smartphone, rumeni palestrati, qualche anziano dall’aria malconcia, magrebini dalle occhiaie bluastre per il troppo fumo.
Tornò ai suoi pensieri. Le grandi cose non lo lasciavano dormire: alla mattina lo accompagnavano in bagno a pisciare, erano lì quando beveva il caffè e si accendeva la prima sigaretta, pungevano nelle ore vuote del pomeriggio quando giocava. Era una fame buia, la sua, che lo tormentava e non riusciva a saziare.
La stessa fame che quella sera sentiva anche suo figlio Stefano, con una bottiglia di alcol in mano e l’accendino nell’altra, mentre aspettava nascosto dietro la roulotte degli zingari.
L’allenamento era stato faticoso. Il maestro aveva costretto Naima a fare dei circuiti ad alta intensità per aumentare la resistenza e adesso lei avvertiva quell’energia in esubero che, alla fine dell’ora e mezzo di kickboxing, si trasformava in una miscela di endorfine e acido lattico che la facevano sentire bene.
Aveva notato due lividi violacei sulla gamba. Garofani striati di sangue, impressi sulla sua coscia come tatuaggi.
La sua mente ricordava a malapena l’evento che li aveva generati – un calcio a mezza altezza andato a segno – ma il suo corpo ne aveva registrato l’impatto. Una memoria della carne. Domani le avrebbero elargito il giusto dolore, distillandolo nelle ore successive.
Uscita dalla palestra, Naima aveva recuperato il motorino e si era diretta a casa di Matteo. Il pavé di Porta Romana maltrattava la sua schiena e i capelli ancora umidi sotto il casco le trasmettevano una sensazione di freddo. Annusava l’aria della sera, l’odore dell’asfalto cotto dal sole, il suo stesso aroma di pelle purificata dal sudore e lavata con un
bagnoschiuma da supermercato.
Arrivata davanti al portone del palazzo, osservò la facciata dello stabile signorile. I motivi liberty distinguevano le case dell’alta borghesia dai palazzi popolari, dove antenne paraboliche e tende verdi sbiadite coprivano balconi stipati di cianfrusaglie ed erano gli unici ornamenti, a parte le scritte inutili, i cazzi, le frasi d’amore iperboliche. Il vuoto architettonico delle case dei poveri rinfacciava al mondo la propria miseria.
Quei palazzi depressi le erano familiari. Abitava in un quartiere dove i condomini come il suo, quelli dei precari e delle maestre, erano in bilico sopra lo strapiombo delle case popolari, abitati da un’umanità da ottocento euro al mese, sempre a rischio di crollo sociale. Si difendevano ostentando
dignità, i gerani alle finestre, lo zerbino pulito, le etichette sul citofono tutte uguali.
Salendo le scale aveva mandato un messaggio a sua madre per rassicurarla. Matteo le aveva aperto e si erano dati un bacio a cavallo della porta, mentre la borsa della palestra intralciava il suo ingresso nell’appartamento.
La Bovisa, zona nord della città, è uno strano miscuglio di case della vecchia Milano abitate da anziani e immigrati, e nuovi loft arredati da precari digitali con mobili Ikea e pezzi di modernariato comprati ai mercatini. Accanto a via Negrotto, tra il passante ferroviario e un lembo di terra che non è ancora campagna, si staglia il grande insediamento rom, concessione del Comune.
Lo sguardo di Stefano si era posato sui catini di plastica, sulle donne grasse che ciondolavano trascinando infanti cenciosi e sugli uomini scuri, seduti a bere. I cani senza collare vigilavano, i muscoli tesi pronti a rispondere a un segnale del branco. Si muovevano nervosi, correndo ora qui, ora là, con scatti improvvisi. Le orecchie mobili, in alcuni casi tagliate, registravano i rumori. Ogni tanto qualcuno scavava una buca grattando la terra con gli artigli, poi annusava l’aria. Aspettavano. Tutto intorno, zolle di erba macilenta a perdita d’occhio, una terra senza padrone. Disgustato dal contrasto tra la miseria generale e il lusso pacchiano di gioielli e automobili, Stefano si era mosso attorno al campo per avvicinarsi a una zona riparata da grandi roulotte, radunate in cerchio a formare una sorta di muraglia.
Sentiva la maglia nera intrisa di sudore aderire al corpo, la musica techno attorno a lui sparata a un volume irreale, come in un luna park.
Guardò i due camerati, poi fece un cenno: i tre si mossero rapidamente tra le roulotte, attenti a non farsi vedere. I rom erano concentrati in una parte più lontana del campo, mentre l’area in cui si stavano intrufolando loro sembrava disabitata.
Accovacciati accanto alla porta di una baracca, estrassero dagli zaini una bambola a testa. Le poggiarono per terra e Stefano vi rovesciò sopra l’intera bottiglia di alcol. Un fiammifero strofinato contro il cemento e, dopo qualche istante in cui tutto pareva immobile, si alzarono le fiamme. Corsero via, alzando la polvere con gli anfibi.
© SEM Edizioni, 2020