Bill Clegg aveva stravinto sul sogno americano. Venuto dal nulla, aveva creato una delle agenzie letterarie più potenti di New York. Lavorava sui libri con passione e cura. Tramutava gli autori in star. Organizzava feste rinomate in tutta la città. C’era solo un problema. Bill era due persone: l’agente di successo che volevano tutti e il tossico di crack che si dibatteva in una giostra di bugie. Quando mi scopriranno?, pensava. Quando scopriranno che non sono il genio che credono, ma un impostore? Che non valgo niente. Che non sono niente. Ma nessuno lo scopriva. Anzi, il suo prestigio aumentava. «Piano piano, le persone nella mia vita si adeguarono alla mia dipendenza e siccome il lavoro andava bene e spesso alla grande, nessuno si prese la briga di indagare più a fondo per scoprire quanto in realtà tutto fosse precario, o perché». Bill guardava i tossici con cui si drogava. Erano squallidi, cattivi. Li detestava, non sarebbe mai diventato come loro. Diventò peggio. Finché un giorno il Bill-di-successo non ne poté più. Semplicemente scomparve. Rimase solo il Bill-tossico, che lasciò agenzia, fidanzato, amici, e si diradò tra i fumi del crack. Poco dopo la pubblicazione di Ritratto di un tossico da giovane (Einaudi Stile Libero, 2011), Clegg torna a raccontare per Satisfiction il suo crack. Clegg non racconta solo la vita di un crackomane, ma anche e soprattutto il resto del mondo: cosa fa quando si accorge che sei un tossico, come si nasconde, come si salva – dal tuo dolore. Al confine tra presente e passato, narrazione distesa e desolate istantanee, Clegg – che dal memoir riesce sempre ad affrancarsi, rivelandosi uno scrittore – racconta senza risparmiarsi, senza perdonarsi. La droga è un mostro che muta il corpo e la mente, istituendo col drogato un rapporto d’amore violento: Clegg lo smaschera, e trasforma la dissociazione della vita tossica in scrittura, ritmo, lingua. In un testo frammentato, crudele come la dipendenza; universale – come la dipendenza.
Gian Paolo Serino
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A volte mi chiedo cosa avrà pensato Oliver Finklestein. Aveva intuito che quel campagnolo che era approdato chissà come all’agenzia letteraria dove lavorava quindici anni fa sarebbe poi diventato a tutti gli effetti un drogato di crack, che conduceva una doppia vita fatta di cene eleganti e book party da un lato, e fumerie di crack e notti insonni dall’altro? Aveva sospettato che lo zotico ansioso e insospettabile seduto alla scrivania lì accanto sarebbe scomparso per due mesi dentro qualche stanza d’albergo e, in preda alla paranoia, avrebbe tentato di uccidersi inalando migliaia di dollari di crack e ingurgitando un mare di vodka e sonniferi? Avrebbe mai potuto sospettarlo? Oliver Finklestein fu una delle prime persone che conobbi a New York e una delle persone più intelligenti e impressionanti che io abbia mai conosciuto in vita mia. Oliver era alto un metro e ottanta, il volto sempre serio da giovane ebreo venuto dalla periferia incorniciato da un’aureola di capelli ricci castani che esplodevano in tutte le direzioni. Era di Long Island, aveva vinto una borsa di studio per l’Amherst College, aveva lavorato alcuni anni come vice caporedattore in una casa editrice storica e rispettata, poi, deluso dalla rozza realtà del mondo editoriale, era entrato alla Harvard Medical School per tornare a lavorare due anni dopo in un’agenzia letteraria piccola ma seria di Manhattan. Fu allora che le nostre strade si incrociarono. Oliver aveva letto tutto quello che aveva scritto Philip Roth, aveva quasi trent’anni quando lo conobbi, ed era di gran lunga la persona più colta, più sentenziosa, più eloquente e strabiliante che avessi mai incontrato. Parlava a una velocità doppia rispetto a chiunque altro e snocciolava senza sforzo pillole di storia, cultura generale, scienza, politica e film a un ritmo da toglierti il fiato. Lavorava una scrivania più in là della mia in quella piccola agenzia letteraria – il mio primo lavoro a New York, il mio primo lavoro in un ufficio – chino sopra il computer come se stesse eseguendo un intervento chirurgico o miscelando sostanze chimiche volatili in un laboratorio. Io avevo ventidue anni, venivo da un paesino sulle colline del Connecticut e mi ero laureato l’anno precedente in un buco di college di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Fino ad allora avevo lavorato solo in una stazione di servizio che vendeva panini e sigarette e poi come paesaggista addetto a togliere erbacce e piantare felci. Qualsiasi cosa dicesse Oliver conteneva riferimenti a nomi come Barthes o Antonioni o Godard – che a me sembravano automobili straniere – e queste informazioni mi attraversavano la testa senza fermarsi mentre annuivo e sorridevo e fingevo di capire. Annuivo e sorridevo tantissimo in quel periodo. Mi ricordo che ogni sera tornavo esausto nell’appartamentino in cui vivevo – un seminterrato con due camere sotto il ponte sulla Cinquantanovesima. Avevo due coinquilini e uno di loro dormiva su un letto identico al mio dalla parte opposta della stanza angusta. Del rombo sommesso delle macchine e degli autobus sul ponte sopra di noi ti dimenticavi finché non appoggiavi una manciata di spiccioli su una qualsiasi superficie e le monete iniziavano a vibrare in direzione del bordo e finivano giù sul pavimento. La mia ragazza viveva a due ore di auto, nel Connecticut, e io – giovanotto di provincia, sbocciato tardi – cominciavo a rendermi conto solo allora che molto probabilmente ero gay. Non sapevo scrivere bene al computer ed ero uno degli assistenti della dinamica e brillante proprietaria dell’agenzia. Rappresentava i migliori giornalisti del paese e mandava avanti la sua piccola attività come se fosse una delle più grandi aziende del paese. Passavo le mie giornate a fingere di capire quello che diceva Oliver e a rincorrere le parole che mi venivano dettate – andavo con il dito indice alla disperata ricerca dei tasti giusti sul computer mentre lei camminava avanti e indietro nell’ufficio in attesa di vedere comparire la pila di lettere e appunti stampati. Le sere le passavo a bere vodka – spesso da solo nel mio appartamento quando i miei coinquilini erano fuori o sulle panchine lungo l’East River. All’epoca conoscevo ben poche persone a New York. Ricordo che tornavo dal fiume, sbronzo e solo, e prima di rientrare a casa mi aggiravo nelle strade circostanti per ammazzare il tempo. Guardavo in alto le luci dei favolosi caseggiati di Sutton Place, solo alcuni isolati più a sud della nostra topaia seminterrata. Dietro ogni finestra illuminata era racchiusa una vita invidiabile – una vita stracolma di amici e raffinatezza e amore e successo e comodità. Incerto sulle gambe, rimanevo lì a fissare dentro quegli appartamenti per avere un assaggio di come sarebbero potute essere le cose un giorno. I primi sei mesi pensavo di essere sempre a un passo dal licenziamento. Placavo la paura scolandomi una birra dopo l’altra e poi mi trascinavo fino al piccolo letto cercando di non svegliare il mio compagno di stanza. Dopo un po’ mi feci degli amici e andavamo in giro a bere per bar e ristoranti. E bevevamo un bel po’. Bevevamo un sacco. In quel periodo fumavo anche parecchia erba. Avevo ancora un piccolo bong rosso di plastica dei tempi del college e la sera mi sballavo e mi ubriacavo e ascoltavo Bob Dylan e cercavo di dimenticare tutte le cose che avevo da fare al lavoro il giorno successivo e tutte le cose che avevo dimenticato di fare o i casini che avevo combinato il giorno precedente. Bevevo e fumavo fino quasi a dimenticarmi chi ero e dove mi trovavo. Ma al lavoro non mi licenziarono. Anzi, andò a finire che mi venne un’idea per un libro e la suggerii a uno degli scrittori rappresentati dalla proprietaria. Si trattava di un libro scritto da un ragazzo che poteva essere lanciato sul mercato per adulti. Fu uno di quei colpi di fortuna che ti cambiano la vita. Lo vendetti per una grossa cifra e il libro diventò un bestseller e poi anche un film (neanche tanto ben riuscito) per la tv. Così mi guadagnai un ufficio personale e la possibilità di diventare un agente. I primissimi scrittori che rappresentai pubblicarono subito dei racconti sul New Yorker, seguirono aste concitate per i loro romanzi e la maggior parte di loro cominciò a destare l’attenzione di grossi critici. Lavoravo sodo ma in un certo senso il successo arrivò da solo. A me sembrava una questione di fortuna – una cosa accidentale, non meritata, che avrebbe potuto svanire con la stessa velocità con cui era arrivata. Ricordo che editori e redattori mi invitavano a pranzo, ansiosi di conoscere il giovane agente che aveva venduto questo o quello, e io pensavo – proprio come durante i primi mesi all’agenzia – che in uno di quei pranzi o aperitivi avrei detto qualcosa che mi avrebbe rivelato per l’infido, stupido e pavido piccolo impostore che ero. Preferivo incontrare la gente agli aperitivi ed evitavo i pranzi. La vodka placava l’ansia e io facevo del mio meglio per sostenere la parte fino in fondo. Nel corso di quelle settimane e mesi mi accorsi che meno parlavo meglio era, meno spiegavo chi ero e come ero fatto più filava tutto liscio. Mi sembrava di essere un attore che metteva in scena ogni volta un nuovo spettacolo. Che anticipava le battute, interpretava il ruolo che di volta in volta il pubblico desiderava. La vodka e l’erba uccidevano l’ansia da palcoscenico. E quindi tutto procedeva per il meglio. Mi agitavo, bevevo, mi facevo, allargavo il cerchio delle amicizie e invecchiavo un po’. Andò avanti finché Oliver Finklestein non cominciò a guardarmi con sospetto dall’altra parte dell’ufficio. La cocaina, occasionale amica di vecchia data fin dai tempi del liceo e del college, entrava e usciva dalla mia vita in quei primi anni a New York, ma fu solo quando una sera mi imbattei in un eminente avvocato del mio paese, più vecchio di me e sposato – lo chiamerò Fitz – che incontrai la mia droga preferita per eccellenza. Mi imbattei in Fitz in una libreria vicino all’ufficio. Lo conoscevo da sempre, i suoi figli avevano la mia età, e girava su una Volvo piena di racchette da tennis e mazze da golf. In meno di un’ora eravamo a casa sua, lui mi accarezzava un ginocchio mentre riempiva una pipetta di vetro con una sostanza simile al gesso, e io mi facevo la prima dose della droga che avrebbe suscitato in me un’euforia più travolgente, ottenebrante, sensuale-al-limitedello-spirituale di qualsiasi cosa avessi mai sperimentato. Era, lo capii, un inizio – qualcosa di grosso a cui non potevo più sottrarmi, qualcosa che avrebbe condotto anche a una specie di fine. Tornai nell’appartamento di Fitz altre volte e poi – grazie a un ispanico che incontrai lì una notte – cominciai ad andare a casa di un altro tipo, che chiamerò Shane. Shane era sulla quarantina e ormai da più di dieci anni si atteneva con costanza a una dieta di Cheerios al miele, birra scadente e crack. Il suo monolocale ad affitto bloccato era aperto a chiunque volesse venire a fumare crack e fare sesso, a condizione che lui venisse coinvolto in entrambi. Nella fredda e spietata luce del sobrio mattino, poche persone avrebbero desiderato andare a letto con Shane. Ma dopo mezzanotte e qualche tirata di crack, diventava attraente come chiunque altro. Tutti quelli che entravano nel suo appartamento finivano a letto con Shane. Era un gruppo deprimente – persone irrequiete e disperati, la maggior parte sposati o con un partner, ogni genere di razza e classe socio-economica era rappresentata. Appena voltavi le spalle ti fregavano contanti, sacchetti di crack, accendini e roba da bere. Era come una famiglia.
Tutti odiavano Shane perché era un tiranno con la droga e col passare delle ore diventava sempre più strano e paranoico. Verso le tre o le quattro del mattino si metteva a sbirciare dallo spioncino della porta d’ingresso convinto che fuori ci fossero i poliziotti pronti a fare una retata nell’appartamento. Dalla sua postazione di vedetta ci ringhiava di fare silenzio e una volta arrivò perfino a scaraventare una bottiglia di birra contro un tizio – un pubblicitario che, ora mi ricordo, aveva appena perso il lavoro – perché aveva starnutito. I primi mesi in cui andavo da lui ridevo delle sue stravaganze visionarie e forse mi infastidivo un po’. Nel giro di pochi anni sarei diventato io quello che si accucciava all’altezza della serratura e diceva a tutti di fare silenzio, mentre si preparava a essere arrestato. Per un anno andai da Shane ogni tre o quattro settimane, poi cominciai a presentarmi lì e in posti simili sempre più spesso – ogni settimana, e poi a giorni alterni. Alle cene a cui ero costretto a partecipare mi scolavo un drink dopo l’altro, recitavo il copione del Giovanotto brillante a seconda di quello che richiedeva la situazione e, una volta salutato, me la svignavo per raggiungere uno dei vari appartamenti dove potevo andare ad annientare il crescente terrore che la mia carriera e la mia vita a New York fossero solo un fragile ologramma delle aspettative altrui. Nei primissimi anni ne facevo uso così di rado che il giorno successivo potevo restare a casa in malattia senza che nessuno notasse niente o battesse ciglio. Più tardi, quando mi succedeva a intervalli di poche settimane e poi di pochi giorni, dovevo in qualche modo resistere fino a fine giornata, dopo aver passato tutta la notte sveglio, e con l’aiuto di qualche caffè e una doccia cercare di mascherare quel rottame sgangherato distrutto dall’abuso di crack che ero diventato. Ero sempre più abile. Concludevo affari con i miei libri, organizzavo pranzi, mi presentavo alla partita settimanale di tennis convinto il più delle volte che mi sarebbe venuto un infarto mentre ero lì ad ansimare – la pelle grigiastra, fradicia di un sudore che puzzava di vodka e crack metabolizzati. La mia assistente si abituò ad annullare per me pranzi di lavoro e appuntamenti telefonici; i miei clienti, col tempo, impararono ad aspettarsi le mie chiamate nel pomeriggio, mai la mattina. Piano piano, le persone nella mia vita si adeguarono alla mia dipendenza e siccome il lavoro andava bene e spesso alla grande, nessuno si prese la briga di indagare più a fondo per scoprire quanto in realtà tutto fosse precario, o perché. Alla fine, negli ultimi tempi, ne facevo uso ogni giorno, ogni notte, e quando finalmente il fumo del crack si dissipò, il lavoro, l’agenzia di cui nel frattempo ero diventato coproprietario, il mio ragazzo, gli amici, i clienti, i soldi – tutta la vita che mi ero costruito – non erano più lì ad aspettarmi. C’era solo un’ambulanza, il pronto soccorso e la clinica. Mi sarei disintossicato – ci sarebbe voluto un anno – e sarei tornato nel mondo dell’editoria. Sarei stato assunto da un’affermata agenzia e mi sarei portato dietro un cliente – poi, poco a poco, gradualmente, ne sarebbero arrivati altri. Avrei scritto quello che mi era successo e sarebbe diventato un libro. Non penso che Oliver Finklestein abbia mai sospettato cosa combinavo la sera. Ricordo che un giorno dopo il lavoro, più di dieci anni prima che la mia vita, come dice un mio amico, si disintegrasse come una navicella spaziale, io e Oliver stavamo camminando per il centro. Avevo già lasciato l’appartamento sotto il ponte della Cinquantanovesima e adesso avevo un posto tutto mio a Chelsea. La mia ragazza si era appena trasferita da me ma le nubi del temporale si stavano già addensando. Quella sera, però, – a quanto ricordo era autunno – l’aria era frizzante e si erano appena accese le luci della città. Oliver conosceva la storia di ogni edificio – chi era morto in questo hotel, chi aveva scritto il tale libro in quella casetta a schiera, chi si era nascosto dalla polizia sul retro del tale bar. Guardava gli edifici con gli occhi pieni di venerazione, questo mezzo genio di origini proletarie che era entrato a Harvard per diventare medico e poi aveva cambiato idea, che aveva visto più film e letto più libri di chiunque altro avrei mai incontrato. A due passi dalla Quattordicesima Strada Oliver mi indicò un’enorme finestra a forma di mezzaluna che irradiava luce dall’ultimo piano di un vecchio caseggiato. Una volta sono andato a una festa là. Non puoi neanche immaginare com’è dentro quell’appartamento. Oliver era il tipo di persona che parlava forte e veloce ma quella sera sussurrò, lento, con il tono che di solito si riserva alle preghiere in chiesa o ai commenti ammirati di fronte ai capolavori nei musei. Continuò mostrando con la mano la distesa di luci tremolanti della città e le macchine che la solcavano: La gente viene in questo posto per diventare quello che ha sempre desiderato essere. Perché in questo posto è possibile. Ricordo di essermi chiesto chi e cosa desiderasse diventare lui e di aver pensato che avrebbe potuto diventare chiunque e qualunque cosa volesse. Alcuni anni dopo, avrebbe frequentato un corso da copywriter in un community college e lasciato il lavoro all’agenzia letteraria per buttarsi in pubblicità. Non lo vedo da anni. Adesso abito a pochi isolati dal caseggiato con la finestra a mezzaluna e di tanto in tanto guardo in su e penso a Oliver e a quello che mi disse quella notte. L’edificio non sembra più così alto e un cartello AFFITTASI è esposto nei fondi commerciali, ora vuoti, a piano terra. Nonostante questo, la finestra brilla ancora nel cielo notturno promettendo, come allora, la vita più scintillante che si possa immaginare. Mi domando se Oliver sia mai riuscito a tornare in quell’appartamento. Si è mai trovato di fronte a quella finestra – o a un’altra simile – a guardare la città sfolgorante che sfreccia in tutto il suo splendore di fronte a lui pensando tra sé e sé di essere diventato ciò che desiderava? Mi domando chi ci viva lì, adesso. Forse qualcuno che in questo momento sta chiamando il suo spacciatore? Qualcuno che si agita perché la mattina seguente dovrà cancellare la sua colazione d’affari; che si convince che sarà in grado di fermarsi verso l’una o le due del mattino e recuperare le ore di sonno necessarie per tenere duro fino alla fine della successiva frenetica giornata di lavoro. E forse per lui la vista da quella finestra non è una ricompensa, ma piuttosto un tormento, un monito che gli ricorda la precaria ascesa, la scalata in solitaria, la vetta da cui un giorno cadrà.
Traduzione di Ilaria Tarasconi
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