“Nella mia famiglia c’era tutto, comprese le mancanze. Non ho cercato mancanze altrove, non ho cercato dolori altrove. Avevo già tutto in partenza.”
Con quest’opera polifonica, le cui vicende si snodano su vari livelli attraverso voci narranti che si inseguono senza mai riuscire del tutto ad incontrarsi, Valentina Maini, qui al suo esordio letterario, conduce il lettore in un caleidoscopio di colori accesi dove le forme assunte dalle storie dei protagonisti si mescolano fino a fondersi perfettamente. La mischia, questo il titolo del romanzo uscito in questi giorni con Bollati Boringhieri, è un gioco di specchi dove è arduo che i personaggi possano riconoscersi subito nella loro vera essenza ed è facile che le loro anime si imbroglino… La realtà si collega ai sogni più reconditi e il lettore ne viene letteralmente catturato, (sor)preso nella fitta rete delle storie che coinvolgono scrittori, famiglie borghesi, maniaci, spacciatori, tagliatori di valigie, cartomanti e donne delle pulizie.
Siamo nel 2007 in una Bilbao psichedelica, sfinita dagli ultimi fendenti del terrorismo basco, protagonisti due fratelli gemelli, un maschio, Jokin, e una femmina, Gorane, figli di due militanti dell’ETA (organizzazione armata terroristica basco-nazionalista il cui scopo era l’indipendenza del popolo basco) che alla nascita hanno pensato che i loro due figli sarebbero stati uno la loro bandiera e l’altra la loro voce, entrambi piccoli rivoluzionari, entrambi la loro vita. I due gemelli cresceranno in maniera diversa e parallela “come ali di uno stesso insetto, due ali destinate a opporti voli”, cresceranno selvaggiamente con due genitori a promettergli sempre assoluta libertà.
Jokin diventerà un batterista dedito all’uso di stupefacenti e cercherà di ripercorrere, apparentemente, le orme dei genitori; Gorane invece, più chiusa di carattere, proverà a distanziarsi dal loro insegnamento, rifugiandosi in un mondo immaginario. A unire i due gemelli un sentimento profondo, disordinato, irrefrenabile. Quando Jokin fuggirà in Francia e i genitori verranno coinvolti in una tragica vicenda, Gorane cadrà preda di strane allucinazioni che la costringeranno a ricorrere all’aiuto di uno psichiatra. Nonostante la distanza fisica, le vite dei due gemelli sembrano però destinate a non separarsi mai e infatti riusciranno a ricongiungersi in un modo molto particolare.
La mischia è un libro commovente che narra la storia di una famiglia divisa, di come due genitori riescano a raccontare i propri figli, di come dietro lo scudo di una presunta libertà a tutti i costi, diventino quasi complici di manie, vizi e follie, senza fare niente, dire niente, sperando nella responsabilità di chi è troppo fragile per assumersela. Una menzogna pericolosa, soprattutto se è l’unica che si è in grado di raccontarsi, la sola che si possa sostenere. “Gorane ci odia. Noi facciamo finta che ci ami”.
Un romanzo ipnotico che riporta costantemente il lettore a sgranare gli occhi per la sorpresa di un esordio tanto intenso e convincente.
Di seguito un estratto in esclusiva concesso a Satisfiction da Bollati Boringhieri.
Silvia Castellani
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Il mio nome è Jokin, ma Germana mi chiamava sempre Jo-kin. Quella pausa era un’incertezza, spacciata per l’innocenza di un bambino alle prime armi con le parole, mam-ma, pap-pa, Jo-kin: ennesimo modo per tenermi sulle spine e permettere al suo volto di districarsi tra molti dubbi riguardo al mio nome. Io lo so, Germana voleva provocarmi, farmi credere di non ricordare chi fossi, e poi voleva che io restassi appeso alla sua voce nell’attesa che completasse quel nome e io potessi finalmente rispondere, o non rispondere, a seconda dei casi. Per colpa di Germana ricominciai a fumare e smisi di bucarmi. Non so in quale ordine tutto questo avvenne e non so nemmeno se c’entrò il nuovo lavoro, Parigi, il fatto che non ci fosse più Arze a darmi la roba. Io non mi fidavo di nessuno e avevo paura della morte. Soprattutto avevo paura di morire a Parigi.
Perciò smisi di bucarmi e conobbi Germana. Una volta la incontrai fuori dal lavoro, in un bar del tredicesimo, stava in ghingheri con un tizio di cui vedevo solo le spalle ampie e magre degli artisti. Quella fu l’ultima notte in cui, tornando a casa, recuperai gli ultimi grammi rimasti e decisi di inseguire il drago.
Per mentire bisogna avere molte verità in tasca, diceva mio padre. La verità non è mai stata la mia isola, ma lui non lo ha mai saputo. Come spiegargli che chi nasce su terre franate non può desiderare altro che crolli e cedimenti, per tutto il resto della vita? I miei erano convinti che io fossi come loro e io gliel’ho fatto credere. Non sapevo molto di me, perciò essere come loro tutto sommato andava bene; se mi fingevo simile, mi avrebbero lasciato in pace con la storia dell’eroina: io chiudo gli occhi sulle vostre stronzate, e voi farete lo stesso con le mie. Ma loro non sapevano niente, nemmeno di lei. Il mio prete bianco. Ho imparato il basco senza fiatare. Li ho seguiti, assecondati. L’eroina era una fissa, una mania, spesso mi faceva stare in piedi, costringendo il mio corpo a uno stato di emergenza. Ero suo schiavo, la sua puttana, il suo animaletto domestico del cazzo: non il suo amante. A me importava solo della musica. Anche senza un soldo, anche nella macchina e nel treno che mi hanno portato fino a qui. Pensavo solo alla musica. Era lei, la mia donna, quella che elargisce e sottrae a casaccio, piegandoti a una vita di attese, spasmi ed euforie. A Parigi vivevo in un appartamento nel diciottesimo trovato per miracolo, ero uno dei pochi bianchi al numero 5 di Rue Belliard. Mi faceva sentire a casa. Interpretai questo sentimento come l’ennesima falla del mio spirito basco. Avrei voluto vivere da solo, ma non potevo permettermelo e capitai in casa con un africano che parlava francese meglio di me e dei francesi stessi.
Le sue origini soffocavano in Ghana, la sua nascita si era invece celebrata nell’antica Lutezia, dorata città del nostro incontro. Era così incredibilmente nero. Aveva un lavoro serio ed era una di quelle persone eleganti che mi facevano sentire sempre in disordine, nonostante i suoi sforzi per non farmelo pesare. Non diventai amico di Sef, ma si può dire che Sef diventò mio amico. Avrei potuto comprare da lui la roba, avrei potuto raccontargli di Euskadi, non lo feci ma avrei potuto, e questo per me significava avere un amico, almeno a livello teorico. Il livello teorico era da sempre tutto, per me. Ogni mattina prendevo la metro e andavo al lavoro. Cercavo di lavorare il più possibile perché quello al museo era un impiego temporaneo e io dovevo pensare al futuro. Era strano, ma il lavoro mi faceva sentire vivo e la prova era che pensavo al futuro. Forse era la fatica a farmi sentire vivo, stremato, le braccia tese verso un mondo perduto. Forse era la fatica a farmi pensare al futuro. Aggiungevo turni, moltiplicavo le ore, assottigliavo le pause pranzo per sentirmi parte della macchina, organismo vivente sulla terra. Germana aveva probabilmente un peso specifico non indifferente nella faccenda. Dopo l’interesse iniziale, per qualche settimana finse di ignorarmi, di ricordare appena chi fossi, non un avventore ma una guardia, quello alto con i denti neri che a volte fuma con me. In quei giorni, non mi avvicinai mai a lei. La mattina mi svegliavo alle sette e un quarto e mangiavo qualcosa, cercando di non fare troppo rumore. Sef si svegliava poco dopo e ce ne stavamo qualche minuto a tavola a masticare insieme. Poi mi vestivo e toglievo il disturbo e l’aria di Parigi mi tagliava a fette sottili nonostante i malefici che lanciavo a bassa voce, continuando a frantumarmi a ogni passo. Appena mi buttavo dentro la metro qualcosa cambiava, il freddo, la paura della morte, qualcosa. La gente legge un sacco di libri, io non avevo un libro, così osservavo la gente, i libri della gente, le loro mani come aggrappate a quei rettangoli di carta. A volte sentivo il desiderio di rubarne uno, strapparlo dagli artigli di qualche benpensante e ficcarmelo nello zaino. Non volevo leggerli, volevo rubarli. Consumavano in luogo pubblico la loro dose quotidiana senza creare scandalo, anzi, si scambiavano sguardi compiaciuti, come se stessero in fondo facendo qualcosa di importante per le loro vite. Io non avevo fiducia nelle parole, cercavo di non usarle mai: lui, lui è quello che non parla. La gente ne era in qualche modo rassicurata. I problemi sarebbero arrivati nel caso in cui io, da un giorno all’altro, avessi cominciato ad argomentare e disquisire su qualcosa per un tempo superiore ai due minuti, fui fortunato perché non accadde mai, e così sono ancora vivo.
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