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Teófilo e Ali a L’Avana

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Teófilo Stevenson fu uno dei più grandi pesi massimi della storia della boxe assieme a Muhammad Ali, ma a differenza di Ali fu il solo che nell’ambito della boxe non abbia mai combattuto per denaro, mentre Ali guadagnava milioni di dollari. Teófilo vinse tre medaglie d’oro in tre consecutive olimpiadi, dal 1972 (Monaco di Baviera) al 1980 (Mosca), passando per Montreal (1976).

Alle successive edizioni di Seul (1984) e Los Angeles (1988) non partecipò perché Cuba aderì al boicottaggio di quelle edizioni, altrimenti avrebbe allungato il suo palmares. Nella sua carriera vinse tre campionati del mondo: a L’Avana nel 1974, a Belgrado nel 1978 e a Reno nel 1986, di 321 matches ne vinse 301, in undici anni non fu mai sconfitto. Sconfisse i grandi Joe Frazier, Igor Vysotsky, George Foreman. Solo una volta, ai Campionati mondiali del 1982, fu sconfitto ai punti dall’italiano Francesco Damiani.

Nacque a Cuba in Puerto Padre nel 1952. Già da ragazzo tirava di boxe di nascosto dalla madre; cominciò nella squadre giovanili, lo scoprirono il cubano Alcides Sagarra e il sovietico Andrei Chervonenko, che lo allenarono per le olimpiadi del ’72. Qui vinse l’oro combattendo ai quarti di finale contro il favorito, lo statunitense Duane Bobick, in un memorabile match in cui alla terza ripresa Teófilo lo mise al tappeto per tre volte consecutive; quindi sconfisse in semifinale il tedesco dell’Est Peter Hussing e poi in finale il rumeno Ion Alexe per ritiro, regalando a Cuba la prima medaglia d’oro della boxe e segnando l’esordio del predominio cubano nel pugilato per i decenni a venire.

La boxe non aveva mai visto un campione come lui, fisico alto e possente (196 cm per 100 kg, come Ali), spalle possenti, braccia lunghe, muscoli strepitosi, stile impeccabile, intelligenza tattica, rapidità degli attacchi, capacità di incassare, mobilità quasi rituale delle gambe. Il suo modus operandi sul ring era semplice ma efficace quasi mai variato: studiava dapprima l’avversario, guardingo a guardia alta, valutandone le debolezze, quindi lo martellava ai fianchi per indebolirne la guardia, dopodiché il suo montante destro sul mento era una stoccata imprevista quanto micidiale per la potenza scatenata, cui seguiva il gancio sinistro di incontro in pieno volto, il cui esito generalmente sfociava nel knock out dell’avversario.

Nessun campione nella storia della boxe vinse tanti incontri per knock out come lui. Si ritirò nel 1986 divenendo un’icona a Cuba. Il governo cubano, dopo la vittoria a Monaco di Baviera, gli donò una casa a L’Avana dove visse sino alla morte per infarto l’11 giugno 2012, quando aveva appena 60 anni.

Nel 1974 si tentò di organizzare un incontro con Muhammad Ali, che era stato sospeso per tre anni dalla boxe e a cui era stato tolto il titolo mondiale dei pesi massimi per via della sua opposizione alla guerra del Vietnam. Ma Stevenson rifiutò di combattere con lui per soldi (5 milioni di dollari più altri 5 di sponsor). Era considerato il match del secolo. Allora Teófilo affermò che non avrebbe mai potuto barattare Cuba per un mucchio di soldi, che preferiva l’amore di otto milioni di cubani.

In un’intervista più recente, specificò che non avrebbe mai potuto combattere contro Ali, perché Ali era per lui un fratello, e che la ragione di quella decisione epocale era anche dovuta al timore che con la prosperità si sarebbe rovinato, come nella Cuba di Batista tanti pugili erano stati rovinati dai soldi o, peggio, trattati come merce di scambio dalle mafie. Ali, all’epoca del possibile incontro col cubano, in una intervista rilasciata al New York Times, sostenne invece che Teófilo doveva essere un dannato pazzo se rifiutava tanti soldi, visto che viveva nella povertà più assoluta come tanti cubani. Ciononostante divennero grandi amici.

Muhammad Ali visitò diverse volte Cuba. Una volta fu persino accompagnato da Malcom X. Teófilo, dopo il suo ritiro, nel suo ruolo di vice presidente della Federazione cubana della boxe, incontrò Ali ripetutamente negli Stati Uniti. Nel 1995, quando le condizioni dello statunitense, afflitto dal morbo di Parkinson, fecero il giro del mondo, Stevenson fece di tutto per andare negli usa per vederlo e invitarlo a farsi curare a Cuba che primeggiava nella ricerca sulle malattie neurodegenerative.

Il loro ultimo incontro fu nel 1996, quando Ali, malato di Parkinson da 15 anni, era giunto a L’Avana come membro di una missione umanitaria che portava medicinali per gli ospedali cubani. Cuba infatti ristagnava in una profonda crisi economica dopo l’implosione dell’Unione Sovietica ed era afflitta pesantemente dall’assurdo persistere dell’embargo americano.

Ad accogliere Ali all’aeroporto José Martí c’era Teófilo, anche lui con la sua quarta moglie come Ali. All’abbraccio tra i due colossi la gente applaudì commossa. Muhammad Ali esordì davanti le telecamere così: «Sono felice e orgoglioso di essere qui». Ali carico del suo carisma, del suo male e del suo coraggio, Teófilo fumatore incallito e generoso bevitore di rum o vodka, entrambi invecchiati, segnati sul volto da uno sport usurante come pochi altri, due figli della loro epoca contrassegnata da contrapposizioni ideologiche tremende, uomini coraggiosi se non temerari che pagarono pesantemente ogni loro scelta, uomini forti e fieri come pochi. Come quello del gennaio di due anni prima, anche questo viaggio aveva scopi umanitari. Muhammad Ali portò in dono 1.236.000 dollari di antibiotici, anticoagulanti e attrezzature sterili per ospedali, che si sommarono ai quasi 20 milioni di dollari già stanziati a favore di Cuba.

Nei suoi pellegrinaggi all’ospedale pediatrico Juan Manuel Márquez, all’incontro con gli atleti disabili del Centro di formazione ad alte prestazioni Cerro Pelado, all’ospedale di cardiochirurgia infantile William Soler, all’incontro con gli sportivi cubani, al Policlinico di L’Avana Vecchia, il grande Ali fu sempre accompagnato da Teófilo.

All’incontro con Fidel Castro, Ali, sempre con Teófilo accanto premuroso come un fratello tutelare, non riuscì a proferire parola, sia per la stanchezza dovuta agli impegni assolti sia per l’emozione di stare accanto a Fidel, un uomo che in fondo aveva sempre ammirato.

Mentre Fidel gli parlava, Ali mimando un gancio contro il suo mento fece spiovere un fazzoletto rosso dal pugno. Tutti furono colti di sprovvista dal gesto. Fidel gli chiese come avesse fatto, Ali non rispose, aveva le lacrime agli occhi, lui che arringava le folle, lui il rivoluzionario imbelle in un’America reazionaria, guerrafondaia e larvatamente razzista, lui che espresse senza mai paure tutte le sue recriminazioni per un mondo avviato verso il delirio, che le urlava ai microfoni e davanti le telecamere di tutto il mondo, ebbene, era commosso perché sapeva di essere alla fine, perché provava ammirazione ma anche pena per Fidel, perché sapeva che entrambi avevano perso, che il mondo non era mai cambiato.

Ma quel fazzoletto rosso era anche simbolo, segno di una resistenza allo status quo, di una resistenza inespugnabile nonostante tutto, traccia di una pervicacia rinnovata al limite della sopportazione dopo decenni di lotte e sconfitte. Quel fazzoletto rosso fuoriuscito dal suo pugno era anche una confessione, un’apologia di tutta la sua vita che non poteva più esprimere a parole e che era la fede incrollabile in tutto ciò per cui si era lottato.

Marcello Chinca Hosch

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