Il brano è tratto dal mio prossimo romanzo, che si intitolerà Autopsia dell’ossessione. Danilo Pulvirenti, un antiquario di Crevalcore, in provincia di Bologna, è ossessionato dal corpo di Angelo – ma Angelo gli è stato portato via da un rivale più fortunato. Danilo cova rancore verso la madre, che ha tenuto stretti i cordoni della borsa impedendogli di abbagliare Angelo con l’esibizione del lusso, e di conservarlo a sé con la forza del denaro. Nel frammento che leggerò, Danilo è con la madre, colpita da progressiva demenza senile; sono soli in casa, perché la badante peruviana sta partorendo in clinica (Walter Siti)
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Questo sole da Reggio Calabria, che ci viene a fare qui in Emilia ? Questo calore straniero, il quattro di maggio, esalta il peggio nell’anima di ciascuno. ‘Anima’ è una parola che Danilo non dovrebbe usare; il suo rivale, che a forza di sfruttare la vita degli altri è diventato uno scrittore di fama, non la userebbe mai. E’ furbo quello, è moderato anche nell’esibizionismo. (Il lampo di un congelatore). “Il bene non fa rumore, il rumore non fa bene”, diceva un prete all’oratorio. “Come posso permettermi di dettare una morale io”, riflette Danilo, “che conosco soltanto la distruzione e la morte ?” Danilo osserva la madre trafficare coi coperchi, avanti e indietro tra il pensile e i fornelli; lui ha già cucinato polpette e frittata, ma lei insiste che le farfalle al burro vuol prepararsele da sola. Il pentolino avrà un diametro di quindici centimetri, lei prova un coperchio piccolissimo da dieci, poi uno enorme da trenta – sembra regredita a quei giochi per i bambini di due anni, giochi educativi con le figure geometriche da inserire negli appositi incavi. Arranca come uno scarafaggio, Danilo ha l’impressione che l’appartamento stia rimpicciolendo intorno a lei; guardandola muoversi, intuisce come pensano gli insetti. Mentre è girata di spalle la segue imitandola, camminando ingobbito a gambe larghe. “Da quando”, si assolve mentalmente, “non ho più paura dell’amore, non ho paura nemmeno dell’odio”. La sua cattiveria l’ha ridotta così; ecco che versa una bustina di Aulin nell’acqua, forse credendolo sale, e Danilo lascia fare sperando che si avveleni
– Mamma, hai capito ?
– Cosa ?
– Quello che stanno dicendo al telegiornale.
– Ero sovrapensiero.
– Dicono che le confezioni di dentifricio senza scritte in italiano contengono sostanze tossiche.
– Non sanno più cosa inventare… ma tanto a me (ride) che mi frega del dentifricio ?
– Perché ?
– Perché non ce li ho, i denti.
– E quelli di sotto, scusa ?
– Quali ?
– Quelli lì, quelli di sotto, non te li lavi ?
– Non ci sono denti.
– Mamma, li vedo io da qui, i denti che hai in bocca…
– Non urlare.
Realtà e risentimento formano nel suo cervello un unico groppo di negazione; mangia le farfalle direttamente dal tegame come una barbona. Dal fondo del disgusto nasce la serenità, esserle compagno di giochi nel deserto del niente. “Come il mio rivale”, pensa Danilo, “mi ha rubato la religione, così mia madre mi ha sequestrato l’infanzia; mi ha esonerato dalla vita che veniva dopo, come a scuola mi esonerò dalla ginnastica”. “I suoi soldi non mi servono più, dunque il mio gesto sarebbe finalmente un gesto libero”: Danilo confonde come al solito la libertà con l’inesistenza.
I soldi non gli servono più. Alla notizia che Angelo è morto, passato il primo impulso di gioia vendicativa, Danilo non ha reagito con l’interezza delle proprie emozioni; dubita perfino di riuscire ad averne ancora, delle emozioni, se non darà a quella morte una risposta adeguata. (Nel congelatore, resti umani). Sua madre entra in bagno, apre l’acqua della doccia, poi si dimentica ed esce lasciandola scorrere.
– Che ore sono ?
– Le due, mamma.
– Allora perché la pendola ha suonato due colpi ?
L’incongruenza logica è il desiderio che urta contro l’impotenza. La solitudine, il tempo che non passa mai; come quando lei cambia l’acqua al fiore di plastica. “Pretende ancora che io la ami, è insopportabile”. Il getto della doccia continua a scialare: nel tempo del paradiso, Angelo cantava sotto la doccia “siamo donneee… oltre le gambe c’è di piùù” – penetrarlo era come fare la comunione la domenica; “il nostro cannibalismo rituale”. Angelo è stato la sua sola vittoria contro la madre, ma se non è bastato lui, niente potrà bastare in eterno. Danilo ricorda quella volta che, mezzo ubriaco di Martini, Angelo gli aveva detto “beh, se tua madre morisse… no, mica perché… povera donna, però…”.
Il rancore sale nel pomeriggio, quando la madre sbuca dalla camera dopo il riposino.
– Ben svegliata, mamma.
– Lo sai che non ti capisco.
– Sei andata di corpo ?
– Addirittura… come ti viene in mente una cosa del genere ?
– Non c’è niente di male…
– Dove sono andata io, tu non ci puoi venire… perché non ti sposi ?
– Ho sessant’anni, dài, ancora me lo chiedi ?
– Non posso nemmeno chiedere ? se sto a sentire te, non dovrei fare mai niente.
– Fai quello che vuoi, questa è casa tua.
– A casa tua stai così, in mutande ?
– Perché, il papà non ci stava, in mutande, quando era a casa ?
– Lui era magro, non faceva schifo.
– Signore dammi pazienza, la vecchiaia è una brutta bestia.
– Il Signore non mi vuole prendere… gli servo qui, per avvisarlo di tutti i movimenti.
– Possiamo andargli incontro, sai ? stai al quinto piano…
– Cos’è questo scagno che hai contro di me ? Ti piacerebbe, che io muoio, eh ? così spandi i miei soldi coi tuoi amichetti… invece sto in salute per farti dispetto, guarda, scommettiamo chi muore prima ? attento, busone, come ti ho messo al mondo ti ci levo.
La malattia non spiega una disperazione così stratificata. Se la persistenza delle idee e delle memorie in un cervello che si sfolla è indicativa di una gerarchia, a dominare la mente di sua madre è sempre stata la rabbia per aver partorito un figlio difettoso; “abbottonati la giacca, non far cadere il bicchiere, tieni ferma la gamba sotto il tavolo, la gente penserà che c’è il terremoto”. La ‘gente’, l’incombente vergogna, si ingigantisce nella demenza fino ad assumere i contorni di una setta spietata, tirannica. La madre sbriciola i biscotti perché la ‘gente’ la obbliga a mangiare quella polvere; la ‘gente’ le proibisce di tenere le finestre aperte se no sbiadiscono le fodere; le ‘gente’ non le permette di accendere l’aria condizionata (“ma dio, ci ridono dietro”). Danilo decide unilateralmente un gesto di pace, prepara un budino al cioccolato: “mia madre è l’unica persona per cui io sono importante, nel bene o nel male”. Lei accorre infatti, premurosa, offre come recipiente per il budino una bottiglia dal collo strettissimo, impossibile. Strano che non mi hai offerto il vaso da notte. Accentua i tratti di demenza quando è sola con lui, li gestisce come un rimprovero; vuole fargli pesare che lui è lì solo in prestito, fin che la badante non uscirà dalla clinica, “non vedi l’ora di andartene”. Certo, se non sapessi che è per poco non potrei sopportarlo. “Mi resta appena il tempo, devo eseguire il mandato” – come una scossa improvvisa, il richiamo di una missione (prima terribile poi euforica: “io non devo esistere più”).
La madre è accoccolata sul tappeto, impegnata a eliminare pelucchi invisibili; lui dice “esco per un’oretta”, deve attuare quel che ha progettato. Prende con sé una borsa di tela su cui sono stampati dei nomi di scrittori, gadget da una fiera del libro. “Non mi fate più di questi tranelli”, grida la madre stralunata; alzandosi ha battuto la testa contro un cassetto semiaperto, anche i mobili la odiano da quando non la temono più. Danilo si precipita, vorrebbe soccorrerla, ma lei grida ancora più forte “andate via… ma che mammina e mammina, io non ho bisogno di niente, andate viaaaa!”
All’avifauna di via Panerazzi, Danilo compra un bel coniglione vivo da quattro chili e cento; scherza con la padrona sulle prestazioni amatorie di cui è stato privato per ingrassarlo. Gli hanno legato le quattro zampe per il trasporto, nella borsa di tela; Danilo ferma la macchina in aperta campagna, vicino a un tabernacolo tra due olmi. Sa che dovrebbe estrarlo e colpirlo con la mano a taglio dietro la nuca, dove la pelliccia è biancastra; “è un futuro arrosto, ucciderlo è legittimo”. Ma getta la borsa sul terreno appena arato e sferra calci alla cieca; il coniglio stridendo cerca di uscire ma la borsa è ben chiusa. Danilo prende il cric dalla macchina, tornando si accorge che la borsa ha cambiato di posto per gli sforzi sovrumani del coniglio; comincia a pestarlo con furore suicida, cercando di indovinare dove stia la testa, se non altro per costringerlo a smettere quegli orrendi guaiti – non è sazio fin che la tela non è completamente intrisa di sangue.
Quando Danilo rientra, dopo un’ora e un quarto, la madre lo accoglie preoccupata, “è da ieri che ti cerco”, Non vale la pena di contrastarla: basta “scusami mamma” e lei già pensa ad altro. Si è bucata il dito con l’apparecchietto e ha misurato la glicemia, dice che era cinquantacinque e teme un collasso ipoglicemico. Danilo gliela misura di nuovo, in realtà segna cinquecento cinquanta, altissima. Ma anche in questo caso, perché smentire ? “E’ troppo bassa, hai bisogno di zuccheri” – nel piatto una porzione abbondante di budino al cioccolato, su cui la madre si getta con avidità.
– È amaro, a tua sorella gli veniva bene.
– Lei è una professionista della cucina.
– Perché, tu che mestiere fai ?
Ma come, dopo tutte le liti per il negozio ? Danilo non capisce se è provocazione, semplice caduta di sinapsi o richiesta straziante sottintesa (“non voglio più sapere dei nostri conflitti, resta qui”). “Ti sei ricordata le pasticche, mamma ?” e le offre quelle di creatina che usava Angelo per gli allenamenti: una volta i medici gli hanno spiegato che un alto valore di creatininemia favorisce il blocco renale.
– No, devo prenderle alla sera.
– Ma adesso è sera, santo dio, è sera, se-ra.
– Ho capito, non sono mica scema, è sera… devo pagarti qualcosa per questa informazione ? Danilo le taglia i peli nelle orecchie; cercando di indirizzare meglio le forbicine le sfiora una guancia; lei, scambiando il gesto per una carezza, ha una smorfia palese di godimento. Danilo ora sa che non può più rimandare.
È già a letto, sta leggendo un libro raffinato, una storia di educande e di freddo; ascolta la madre che zoppica ansimando oltre la porta chiusa, ne misura la fatica; sente che si lamenta per fare accorrere qualcuno, ohi, povera me, oddio. Danilo spegne subito la luce, che non la veda filtrare e non bussi; aspetta col batticuore e fitte allo stomaco. Forse il miracolo sta per compiersi. Come il demonio vuole, dopo mezz’ora torna il silenzio; Danilo cade in sogni affaticati, negozi chiusi, mancate coincidenze, un vecchio computer col sistema Ms-Dos che appena lui sfiora il tasto ‘delete’ si autodistrugge fumigando. Prima dell’alba lo sveglia un’immagine più nitida: la madre ringiovanita, coi capelli scarmigliati tenuti insieme da una fascia, un abito da zingara come in un Trovatore di De Falla. Sforzandosi di spremere ancora piacere dal sesso con Angelo, aveva sillabato nel sogno “re-sto an-cora un po-co”, ma lei non era più la demente lontana, era perfettamente presente oltre la finestra – “sono qui, sono venuta a Barcellona per te”. Dunque non c’è scampo, mi seguirà dovunque, la persecuzione non finirà mai; e l’ha vista stravaccarsi sul gradino incurante che sotto la gonna trasparisse il cazzo da centauro.
Come quando, la mattina di Natale, correva a controllare i regali sotto l’albero, Danilo apre la porta della camera di lei sperando di leggere sul suo volto l’entusiasmante insediamento del coma; invece trova la madre rannicchiata sul fianco, con bolle di saliva alle labbra. Non osa toccarla, la rigira di schiena aiutandosi con un cuscino; gli pare che dalla bocca, confuso tra due rantoli, esca assurdamente un “grazie”. Allora il cuscino finisce sul viso della madre e Danilo preme, ormai non sa far altro che premere, per un tempo non calcolato. L’unico pensiero, ricorsivo come un loop, è “voglio vederla tornare buona”. Sta per fermarsi, perché gli appare lei coi seni ancora floridi e il collo rugoso, che si dispera che le fa male e lo prega di chiamare un’ambulanza, e a Danilo scatta il riflesso condizionato di soccorrerla, “mamma parla, che cos’hai ? svegliati” – ma scaccia l’immagine, dato che in quel letto micragnoso non brilla un solo centimetro di pelle ma solo coperte luride e un grumo puzzolente che sussulta. Ad avvicinare un fiammifero acceso, come ha visto fare nei film, teme di bruciarle la peluria sul labbro; ma i rantoli sono finiti, e il polso ha cessato.
Questa era l’unica risposta adeguata, la sola possibile protesta civile contro l’acquiescenza dell’universo. Danilo si concede una ricca colazione in un posto chic, un albergo all’ingresso dell’autostrada segnalato sul “Gambero Rosso”; la sorella, ne è certo, non chiederà l’autopsia. Festeggia, fra tartine al salmone e succo di pompelmo rosa, il probabile sopravvenuto rigor mortis.