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VITE CHE NON SONO LA MIA

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Emmanuel Carrère è lo scrittore che meglio di altri, oggi, sa estrarre dalla cronaca, dall’attualità emergente, dalle occorrenze autobiografiche tutte le potenzialità romanzesche insieme a un essenziale senso di umanità. Evitando così ogni rischio di egotismo narcisistico da autofiction. Di questa sua qualità ha offerto prove eccezionali in libri come La settimana bianca e L’avversario.
Proprio tra i poli del privato e del pubblico (del politico) si gioca, sin dal titolo, il suo nuovo romanzo, Vite che non sono la mia. Si parte da dentro la tragedia dello tsunami, vissuta dallo scrittore nel Natale 2004: una coppia francese vi perde la figlia di quattro anni. Da qui, al ritorno in Francia, un altro lutto, questa volta per cancro. Carrère racconta come fossero ordinarie, ma con grande empatia e senza paura di cadere nel patetico, queste due tragedie, che appartengono al mondo delle evenienze straordinarie. Ma a un certo punto, con l’entrata in scena dei due magistrati Étienne e Juliette, ci si rende conto che la vera straordinarietà è un’altra: è il movimento dal dentro intimistico al fuori, proprio nel momento in cui l’incandescenza della disperazione spingerebbe in senso opposto. È sorprendente come un doppio viaggio attraverso il dolore individuale possa condurre a ragioni civili, universali, che hanno a che fare con l’amore per il prossimo e per la collettività.

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