È un casino là fuori. Non è come una volta, al quartiere. La cosa la risolvevi con dignità. Pretendendo rispetto anche nel misurare coltelli e cazzotti. Bastava un affondo di lama e ti mettevi in pari con le formule e i santi. Ti stava sulle palle il coglione? Ci aprivi la pancia, una, due volte e la questione era bella che risolta.
Le storie semplicemente le chiamavi con il loro di nome e se un cazzotto ti spappolava il fegato, il sangue alla bocca valeva il tempo del vanto. Ti sembrerà banale, ma il mio nome lo ricordo ad ogni santo di un istante che fa le 24 ore del giorno. Avrei potuto chiamarmi in mille altri modi diversi e abitare luoghi così lontani e diversi da questo culo di un posto che il mio nome, tra chissà quale città del cazzo, sarebbe stato degno di vivere il cattivo come il buon tempo sopra e sotto la sorte di quei posti. In un modo o nell’altro, sarebbe stato il mio nome a spiegare alle circostanze per quale fottuta ragione dentro ad ogni singola parola di quel nome erano sia il motivo che la grande opportunità.
Quello che voglio dirti è che per porre un qualsiasi vantaggio, tra te e le stronzate del mondo, devi avere rispetto del nome che porti e lo devi tenere sempre in alto, anche quando è la morte a chiamarti in mezzo. Proprio così: l’oro del nome è legato a ciò che suggerisce la vita quando smarrisci la rotta. Se ci pensi, è come uno di quei termini non negoziabili. Un lascito inestinguibile. Come le cose per cui eravamo nati e fatti. Ricordi? Ricordi l’ultimo prima di questo? Cazzo, due Franchi a pompa e sessanta secondi. Giò a farsi la guardia, io alle casse e tu a lavorare di palo. Ci siamo fatti due estati con quel lavoro. Trecentomila e neppure un cazzo di colpo sparato. E niente valeva il peso del momento. Il tuo culo per il mio. Lo sapevi il confine. Che è come l’urto dopo l’azzardo. Superato il blindato da “trenta” ti era chiaro che potevi creparci. Il tuo per il mio, proprio così. Una somma di numeri al netto del rischio. Certo, la fottuta fortuna, ma è stato quel lavorare di fino a fare la differenza.
Quanti ne abbiamo alzati? Dieci, undici? Te lo dico io, cazzo. Dodici. Per Dio, dodici e nessuno c’ha rimesso il culo. Dico: nessuno. Neppure quel rottinculo di uno sbirro con la 38 pronta a farmi il pelo. Quello fu il caso. Col cane alzato e la bocca di fuoco pronta a spaccarmi l’anima. Eppure, non era quello il punto morto nella mia notte. Eh si, mi doveva più di un paio di promesse ancora il mondo fottuto. Il caso? Dio? Cazzo ne so. Forse, una di quelle cazzate che a sbattereci la testa gli scienziati ci rimediano il nobel. Non so se intendi, questione di numeri e variabili. Così come nei nostri sessanta secondi. Tra questi millimetri di sorte, o è la vendemmia oppure risichi alla vigna il disavanzo e l’aceto. Dio solo lo sa. A noi competono solo alcuni argomenti. Certo, a beccarci l’eroe sarebbe stato possibile, ma a sottrarre più nero di quel dovuto che si deve alla notte non è mai convenuto a nessuno. Se c’era da prendere, si precedeva il solco e, concesso il lavoro, si potava la parte del ramo da prendere. E alla eventualità del danno avrebbero provveduto due rimedi: il tempo e il silenzio.
Sì, perché lo starsene in campana è l’arte di sfioro: da una parte il precipizio, dall’altra le cortesie della solitudine. Non c’è patria nel grigio. E quand’è il terrore, se non giochi di palle e rispetto, gli istinti alimentano la contabilità peggiore. Se ti sfugge l’onore, tra tacca e mirino, è il tuo nome che oltraggi e il sangue finisce nel sale. Adesso, dimmi cosa cazzo vedi laffuori. Uno ad uno, guardali. E bene. Ci vedi il loro di nome, là dentro? Tutti in fila per compiacere la regola del varco, ma pronti e addestrati a sbranare ogni genere di pioggia sporca e per fottere il tempo acido dell’altro. In tempi di sopravvivenza, quando senti l’architettura della fine, la legge è nella miserabile opportunità. Sono fatti del medesimo cibo con cui nutrono il loro male peggiore.
E, in fondo, quale altra e più devastante guerra li distingue dalla ferocia che occultano nel sangue? Ricorda, nessuno si salva da solo. Premi qua, figliolo. Ti sto crepando davanti gli occhi. Sai cosa fare. Adesso, ingrana e schioda. Con calma. C’è un posto. Che è come la mia faccia. Voglio vedere il mare. Poi, pulisci per bene. Il fuoco saprà come onorare il mio nome. È stato perfetto. Come la bellezza che tiene Dio per mano. Di punta e in affondo, come cattedrali sparate oltre l’immortalità. Tienilo in mente, per sempre. Un pittore non avrebbe creato una Madonna più bella. Sono fiero di te. E ricorda: dentro il tuo nome è un incantesimo. Nel tuo nome nessun altro come te. Non fa male. No, non lo pensare. L’eroe non è un uomo che non ha paura, ma uno che se la fa sotto, facendo la cosa giusta.
Vito Benicio Zingales