Le mattine di sole di marzo sono finite in un tempo crudele. Dove siete, mattine di sole, finite nell’azzurro sprezzante?
Le ragazze erano pigre, distese sul pavimento di un lungomare. Le sacche lasciate più in là, i jeans logori, stretti alle gambe tornite e forti.
Fumavano dentro una bolla di luce. Sembrava piombare su di loro come la sola prerogativa di una eccezionale profezia: la giovinezza.
La parete cristallina attraverso cui scivolava febbrilmente una lancia efferata di vita. Il profumo dei fiori di arancio. Il maestrale ad una certa ora. Il maniero spazzato dai flutti spumeggianti oltre la baia dei fenicotteri.
Il fenicottero rosa, il solo, in equilibrio estatico, tentennate sulla rocca, il simbolo della nobiltà, della virtù dell’eccezionalità di una sola stagione. Per il tempo fissato.
La sprezzatura del fenicottero rosa, aristocratica distanza, simile al privilegio delle ragazze, pigre e bellissime, della bellezza farsene un pegno, una cuspide, la grancassa di tutte le rovine gettate al futuro. La casa sulla sabbia in riva al fiume, sapete, l’amore. Oh, lasciate perdere. Le ragazze erano buone a sé stesse.
La giovinezza. Io?
Io non lo ero. Non abbastanza nemmeno da ragazza. Sedetti sulla panchina. Il maniero era febbricitante nella eccelsa luce di marzo.
Ora marzo concedeva gli ultimi giorni, prima di esplodere abbarbicato dentro prati infiniti e verdi che coprivano la steppa arsa della baia. Campanelline bionde, fiori, giallognoli, grappoli bianchi ai bordi di una mulattiera.
Sarebbe finita e presto. La giovinezza. O forse a loro non toccava vulnerare il delicato incanto: una sola primavera, una sola stagione. Per il tempo fissato.
Era la giovinezza, malgrado ne avessero conteggiato variegate diserzioni.
In lontananza, le vele fendevano la limpidezza dell’orizzonte, affioravano dalla vastità di un altro mondo, consegnavano verità esotiche.
Le ragazze di una provincia hanno una gran voglia di vedere, hanno curiosato con la disperazione di micetti che arrampicano vetrate larghe come faglie. Da lì potevano vedere, curiosare.
Potevano vedere cosa?
Il mondo. Non è abbastanza?
Il mondo sono gli altri.
La sera splendono ancora. Sono stelle.
Sono loro, attraversano le vie buie.
Una Mercedes nera si accosta. Mi chiede: Sali?
No, vai fratello. Insiste. Sali? Ho il fumo buono. Ne ho un grammo.
Lui non è male. Mi guarda. Ho freddo. Ma non tremo per questo. Tremo per lui. Insiste.
Sono magrissima, le gambe incerte su tacchi da donna. Io non lo sono.
Ho un vestito laminato. Il solito. Raccoglie i fari, le lampare, le luminarie, le rigetta in riverberi impazziti.
Alla fine ci ripenso.
Salgo.
Lui è nervoso. Scatta di prima. Percorre le strade strette del quartiere con una furia volgare. Vuole avermi subito.
La consapevolezza mi rende distratta e cattiva.
Non parliamo, usciamo dal quartiere poverissimo e buio.
Lascio che la vita si prenda la briga di sporcarmi.
Vi dicevo, inaugurare la carriera di errori ha una sua speciosità.
Finimmo in una campagna. Al centro di niente. Davanti la luna precipitava. Dal mare proveniva il suono della notte, il richiamo blando di un brusio che rimesta cupamente, una blanda lamella, segnali di fumo di una umanità recondita. Pescatori dentro la vita.
Le lampare. Dico all’uomo: sono lampare.
Mi guarda: ha i capelli scuri, lunghi. Sei bella. Lo sai?
Mi guarda.
Quanti anni hai? Chiede.
Non rispondo. Sono distratta, crudele.
Fisso fuori qualcosa, un movimento, un sussurro sui rami dei carrubi. Fisso il suono della notte cattiva.
La sua mano afferra la mia gamba. Alza il vestito.
Come ti chiami?
La voce arrochita è il mio trofeo. Vince, la perdente. Vince, la sacerdotessa di tutti gli errori. Del fallimento universale, l’imperatrice.
Non rispondo.
La vita si svolge dentro la notte cattiva.
Il mio vestito è leggero, potrebbe raccogliere tutte le luci. Sono la sventura. Divento la lucerna.
È questa la vita?
Ho chiuso gli occhi.
(continua)
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