Abito in un’ex latteria con vetrina e porta su strada il che fa di me, a tutti gli effetti, una donna di strada, così protesa all’esterno da aver scelto una dimora che consente un’immediata fuga. Quando comprai questa peculiare dimora oltre dieci anni fa, ricordo che amavo sistemare il divano sul marciapiede dove me ne stavo spaparanzata a osservare la gente, un po’ come fanno le vecchine al meridione sedute in strada. Sono una donna sulla strada.
In questo tempo sospeso e inquieto, se allungo la mia testolina dalla porta-finestra scorgo in lontananza l’Arco della Pace, il nostro Stonehenge urbano che rende alquanto bizzarri noi residenti nei suoi paraggi, e osservo, in stile La Finestra sul Cortile di Hitchcock, le vite segregate dei miei vicini, mai così vicini. Gli unici rumori nell’assordante silenzio cittadino sono il primaverile cinguettio degli uccelli e le sinistre sirene delle autoambulanze. Nella forzata clausura domestica, che imbriglia la mia imbizzarrita e bizzarra Furia, inizia a svelarsi la mia vera natura, l’altra faccia della sgargiante medaglia social e sociale con la quale affronto e fronteggio il mondo a suon di dissacranti battute e maliziose mossette. La mia dark side of the moon, al pari della natura selvaggia che si riappropria dei propri spazi, rivendica un suo posto al sole sotto il microscopio dell’introspezione. E confesso che mi piace assai questa me, meno frenetica e chiassosa, non più “costretta” a fare tanto rumore per nulla. Come scriveva Truman Capote in Incontro d’Estate: «Le piaceva stare sola ma non perché preferisse tenere quel broncio svogliato che è un vizio delle persone altamente addomesticate, naturalmente sottomesse e docili; la sua solitudine le pompava dentro un vigore selvaggio, nervoso, che ogni giorno le imponeva imprese più ardue, sfide più azzardate. La velocità l’intorpidiva, spegneva ogni luce nel suo cervello, e soprattutto ammortizzava un po’ quell’eccesso di sensibilità che le rendeva tanto dolorosi i contatti con gli altri. Tutti toccavano le sue corde troppo forte e i suoni che lei emetteva di rimando erano troppo rumorosi».
Io sono caos ma sono anche avvezza all’intimità, al suono del silenzio, così determinata nella mia indipendenza/solitudine, e proprio un anno fa avevo trascorso tre settimane da sola in convalescenza post-operatoria con l’aggravante del dolore fisico. Mi curai l’anima a suon di musica classica, libri e spinelli. Al dottore dissi che non avrei preso oppiacei chimici preferendo la “roba” naturale. Non poté che acconsentire. Commemorai la perdita di una parte del mio corpo – tra tutte proprio le tube di Falloppio (buffo nome che combina due mie passioni) mi asportarono – nella pacifica quiete del natio lago di Como, lontana dal fatuo vociferare. Paradossalmente, ricordo con un pizzico di nostalgia quel periodo perché non avevo altro da fare se non occuparmi di me, silenziando il baccano esterno.
Mi autocertifico quale irrimediabile cialtrona, fiera delle mie origini lacustri perché noi laghee siamo dei bricconi, scostanti e diffidenti, altresì spustadi, come diciamo noi in gergo, o in italiano, svalvolati. È questa la mia natura più vera, io nata in un contesto di cantastorie, affabulatori, contrabbandieri, contaballe, romanzieri, ombriaconi, autentici personaggi della commedia italiana. Che hanno influenzato la mia ironica favella, il mio fabbisogno di storie, la mia spasmodica ricerca di risate smaliziate. Tutti hanno il loro vizietto e nei piccoli paesi tutti conoscono quelli degli altri. Io oppongo fiera Vizi Pubblici Private Virtù al più banale e bigotto detto. Non mi nascondo, anzi mi pavoneggio dei miei vizietti, facendone ridere tutti nel mio borgo di Bellano. E facendo così, insinuo la sana idea che la libertà sessuale sia un profondo toccasana. Altro che Xanax.
Il nostro medico locale, Andrea Vitali, oggi romanziere di successo, nonché uomo di grande umiltà, ha scritto dell’importanza dell’ironia in questi tempi bui e spaventosi, narrando con la sua peculiare penna come il nostro paesino, popolato in gran parte da anziani, stia affrontando l’emergenza con la naturale vis scanzonata dei suoi abitanti. In paese mi chiamano Menaggina, dal possente e distruttivo vento Menaggino, anche mina vagante, attualmente stanziale, e Andrea quando m’incrocia, mi minaccia con ironia di T.S.O., il trattamento sanitario obbligatorio mentre il maresciallo fa dondolare le manette quando mi vede sculettare in giro. Mi manca il mio paese degli artisti, i miei sentieri nei boschi che mi fanno sentire viva e attiva, le mie chiacchiere con i vecchietti alla Taverna del Ponte che alimentavano umanità. Io contagio di joie de vivre.
Mai come in quest’attimo in cui il mondo che conoscevamo è sfuggito, forse per sempre – mi domando cosa sia peggio: se un domani tornerà tutto come prima o se nulla lo sarà più – nell’isolata, ma non desolata, solitudine trovo conforto nei miei amatissimi bambini. I libri che mi tengono compagnia e allegria sin da quando imparai a decifrare le parole scritte. Quei libri che mi consentirono di viaggiare quando ero troppo piccola per imbarcarmi nelle avventure che avrei ricercato da grande, di formarmi una mente libera e di scoprire l’altro da me restandomene placidamente sdraiata a leggere. Qui accanto al mio Mac sui cui tasteggio, sono circondata dai miei compagni di carta, mi fanno sentire protetta e privilegiata, ad averli (letti e non).
Io, divoratrice di libri (e in passato, nonché in futuro, di amanti!), li voglio di carta, li voglio toccare, palpeggiare, fin tanto molestare. Ci scrivo sopra, faccio le orecchie alle pagine, ci dormo accanto, li tengo anche in bagno (solo quelli che mi fanno cagare), mi assediano con il loro calore letterario.
Ieri nel pulire casa, un atto contro la mia natura sporcacciona, genuflettendomi davanti alla libreria lo sguardo è caduto – a me piace più pensare sia stato rapito – da un interessante saggio che amai molto dal titolo Città Sola di Olivia Laing, dove la scrittrice, brava, narra di alienazione, isolamento e arte in una New York dalle mille luci e dalle mille solitudini.
«La solitudine è un posto affollato… La solitudine è collettiva; è una città. E non ci sono regole su come abitarci, e non bisogna provare vergogna, basta ricordarsi che la ricerca della felicità individuale non travalica e non ci esime dai nostri obblighi reciproci. Siamo tutti sulla stessa barca, e accumuliamo cicatrici in questo mondo di oggetti, questo paradiso materiale e temporaneo che troppo spesso assume il volto dell’inferno». L’avevo già letto e presto dimenticato. L’ho riletto e sentito mai come prima, in questa reclusione.
Mi diverto a paragonare i libri agli uomini perché amo sfogliare entrambi, selezionarli, aprirli, assaggiarli, posarli. Ravviso un legame tra queste due mie passioni: ne scelgo tanti, mi concentro su alcuni e se non mi soddisfano, li metto da parte e ne “apro” altri. Così come per me è difficile individuare un singolo autore preferito lo è altrettanto in termini di amante, nel senso letterale di “colui che ama”. Sono di umore tempestosamente variabile e, a seconda del momento e dello stato d’animo, posso volermi immergere in un’autobiografia, in un intellettuale. Di repente, potrei invece desiderare un giallo scacciapensieri e un amante ruspante.
Amo la varietà di ogni genere. Non sono facile ai legami e rifuggo a gambe, e sottane, levate la monotonia della monogamia. Pertanto così come non riesco a selezionare un nugolo di scrittori, così non sono in grado di concentrarmi su pochi uomini selezionati.
Il mio apparente fallimento di vita – nessuna carriera, nessun marito, nessun figlio – ora nell’attimo incerto sembra quasi rivendicare un suo successo. Di aver vissuto e goduto ogni scampolo di fuggente felicità, di essermi concessa ogni vizio e guizzo, di aver esplorato viaggiando e amando, di non essermi mai frenata dall’essere me stessa, di aver percorso il mio sentiero ascoltando “un diverso tamburo”, come sosteneva Henry David Thoreau in Walden: «Se un uomo non tiene il passo con i compagni, forse questo accade perché ode un diverso tamburo. Lasciatelo camminare secondo la musica che sente, quale che sia il suo ritmo o per quanto sia lontana».
Adesso costretta, mi sento meno stretta.
Perché sono sempre stata, e sempre sarò, libera.
Temo solo la realtà.
Ma ci saranno i libri a consentirmi sempre una via di fuga dall’assordante e scombussolante paura, capaci di prepararmi al peggio nel miglior modo possibile: con ragione e sentimento.
Roberta Denti