Talune stazioni di posta, talvolta, offrono al viandante il vantaggio dell’assecondare quella certa continuità con la più “decorosa delle nostalgie” mostrando, da una parte, la spinta alla traccia e, dall’altra, i motivi dell’ultima orma. Alcune locande, ingenerando la sensazione della mappa, narrano al viaggiatore tutte le cose per cui è stato il viaggio.
Lasciato quello scalo, nel viandante agisce il più improbabile, ma potente convincimento: “si è viaggio” se da quegli scali si è stati attraversati dal ricordo della propria casa. “Hai fatto un lungo viaggio, adesso è tempo di tornare a casa”. Poi, ci sono posti. Che lasci al cuore, malgrado il varco ne indichi le pertinenze dell’obbligo. La tua intenzione, al passaggio, resta intatta. Come il posto che ne segna il rumore audace della spinta al congedo. Sono come quel genere di taccuini, testimoni di un’origine, ma incapaci di sottrarsi ad una fine. Sono gli avamposti della meraviglia … la duttile frequenza con cui gli occhi assorbono l’abbandono. Perché, al passaggio, alludono a quei paradisi variabilmente eterni. Quelli che, se gli occhi conducono alla traccia, sanno commutare l’indescrivibile con le estati segnate dall’infanzia.
Un po’ come la spinta al desiderio. L’accadimento del desiderio e non il determinarsi della intenzione. Restano. Semplicemente, si vestono di carne, senza alcun vincolo con cui provvede l’intelletto o il corpo. Quei posti che, assecondando le necessità dello spirito, riproducono quel “violentemente umano” da impregnare il mondo con il bosco delle virtù. Ma per le strade di Furibonda né gli uni e neppure gli altri. Non è tanto per la meccanica dei luoghi, ma per la fisica dell’assenza. Poche decine di manufatti obbligano la strada alla disciplina, variegando la carreggiata di quel tanto da inibire il senso dell’impudenza. Ma i vincoli alla cautela, oltre ad assoggettare l’esperienza, finiscono con l’essere quella sorta di espediente che l’autorità sollecita quando la circostanza avversa suggerisce di contaminare la libertà. Non levano guglie al cielo o quei cantieri concupiscenti. Non è il cemento a risolvere le attese solite o i retorici appetiti. Neppure uno di quei vessilli che richiamano ai sacri doveri e all’imperiosa Lex.
Le impalcature, tutte uguali e secondo una perfetta geometria ripartita, avvicendano, nella rotazione dello schema, il filare delle panchine con la polvere del deserto. Solo avvicinandosi esaltano alcune, poche differenze. Sono ciò che resta dei cartelli elettrici che, al di sopra degli epistili, indicano, ormai a malapena, una funzione commerciale o un motivo d’interesse. Se ne contano quaranta, e tanti quanti sono i manufatti che di quel posto raccontano il particolare scocco. A Furibonda, nei giorni del “disastro”, così come riportato dall’ultimo tra gli anziani del vicinoro Dissapori, tutti si dissero inclini al magistero della fermezza. Nessuno è sopravvissuto agli urti di quella convinzione. A parte la muta ridondanza delle dune, là a tentarsi una breccia, tutto nella pietra tufigna è rimasto intatto. Odioteca, procedendo dal varco nord, è il primo tra i cartelli che segnala l’ingresso ai luoghi. Avidoteca, è il secondo. Ignavioteca, il terzo. Egoicoteca, il ventesimo tra i cartelli, conclude quella ripetuta ode prima di una specie di sottolineato e muscoloso displuvio. I caseggiati, tutti a pianta quadra, duplicano un’arringa insostenibile. Ad un piano. Senza finestre. Tutti uguali, per forma ed ispirazione. L’intonaco, agli esterni, evoca le cose che, non risolvendo, urlano sui bordi del caos.
Dalle mediocrità del grigio all’assolvere indestinato dell’ocra. Dopo l’alludente avviso, lì a dividere i luoghi, procedendo verso meridione, sono Ipocrisiateca e Arroganzoteca. Gli ultimi manufatti, quelli che precedono l’accesso sud, sette per l’esattezza, non fanno evidenza di alcun cartello. Avrebbero dovuto, forse. L’austero filare segnala solo la successione delle ombre gettate in terra. Sette contenitori. Solinghi, seppure afferrati alle conseguenze dell’altro. In accenno, dalle fondamenta alla risicata falda, neppure gli osanna del deserto. Magari esercitano un incitamento al ricordo o una di quelle remote, connessioni emotive. Ma non hanno porte, né ingressi di fortuna. E il silenzio, insieme ad alcune rose pietrificate dalla polvere gialla, rogita il patto col tempo. Qui, appena superato il varco estremo, è il primo vincolo alla cautela. Ben piantato in terra un palo sormontato da un nuovo genere di espediente: “Rallentate, domani è già accaduto”.
Lasciata Furibonda, nella “prospettiva del ritorno”, quasi riconciliatoria con quella antica spinta al desiderio, un filare di pali. Ma da assecondare ad una nuova genesi di cartelli.
Vito Benicio Zingales