“Forse la vita si riduce all’atto finale, cancellando ogni parvenza di memoria del passato”
Si dovrebbe leggere questo scriptum di Mattia Madonia un paio di volte, trattiamo di un romanzo sui generis nel panorama letterario italiano, di ardua decifrazione, perché costruito in un gioco ad incastri la cui definizione finale si profila solo retrospettivamente quasi in filigrana, un dedalo di vie che apre infine sulla via maestra del senso, di un derivato narrativo naturalistico quasi mai calcolato dove potrebbe scorgersi come su uno specchio opaco il filamento di una verità che apporta un involontario responso di portata globale. Un vero oracolo.
Dicevo andrebbe letto almeno un paio di volte, perché rileggendo si colgono i rimandi, i nessi, le coniugazioni fatali tra un episodio e l’altro apparentemente scollegati pur svolgendosi nello stesso condominio di una grande città.
Forse Milano (le mosche, le albicocche, il mondo onirico, il doppio dell’io, l’idiosincrasia disperata e dilapidatoria verso la natura umana, la precarietà dei sentimenti cui consegue la rassegnazione, l’apatia, la morte il suo pensiero latente nel subconscio come immanenza quotidiana, la solitudine affettiva come destino oltre che come standard socialmente propagato, neanche si tratti di un contagio che riguarda le emozioni e i sentimenti di tutti.
Se ne trae un unicum che è sotteso tra le righe e riguarda un punto cruciale che fonda l’habeas corpus di una concordante imputazione: l’estraniazione irriducibile di ogni personaggio (Bianca, Livio, Paride) dal mondo che lo circonda, che diventa estenuazione di una autodifesa che è sia preconcetta che precauzionale.
Non si ha fede in niente e in nessuno, ciascuno prostrato alla stregua di un soggetto autistico dentro un’epoca ferita a sangue dal fallimento ecologico, afflitta dalla metastasi di un modello economico alla fine e purulento e proprio perché purulento ora cruento con guerre, carestie, razzismo, nuovi fascismi, revanscismi nazionali. Un’epoca che si svela esausta soprattutto a causa dell’abnorme incremento demografico che spoglia di risorse il Pianeta, per cui si manipola surrettiziamente il mondo animale in allevamenti sempre più intensivi e dunque contaminanti la salute pubblica come questa attuale pandemia sembrerebbe provare inconfutabilmente.
Matteo per me si raccorda, nella sua irriducibile distanza da un mondo in frantumi, nella violenta avversione al suo tempo, un tempo che nell’agonia del mondo pare essersi fermato, si raccorda dicevo al fatalismo nichilista di un Kafka talmudico ovviamente, come a Salinger in Catches in the Rye per il concetto di irriducibile estraniazione che lo allontana dall’umanità in quanto tale, a Borges per la singolarità lubrificante e spiazzante del punto di vista nelle proposizioni e nei dialoghi, nonché ai russi di fine ottocento Bulgakov in primis, per l’uso della fantasmagoria, della parabola biblica, Dostoevskij, per il portato psicologico pessimista sulla natura bipolare dell’uomo, sulla Storia vista come flagello, portato che in Mattia si rileva ancora più radicale perché più gridato, più acerrimo e perciò più irreprensibile.
Scriptum autentico, di grande spessore ermeneutico, perché non elaborato verso un raccordo comunicativo di empatia col lettore ma narrazione che si estrapola dolorosa, vero e proprio auto da fé che non nasconde il proprio fallimento esistenziale che è il fallimento dell’intera umanità per cui nessuno è salvo (nemmeno Enea il poeta che si apposta dietro il platano ogni notte per guardare le stelle e sdraiato supino sul selciato nuota nell’infinito dello Spazio, il solo che potrebbe rivelarsi tra i salvati si scopre un feroce adepto dell’omofobia più bieca.
Forse solo i bambini si salvano in questa narrazione finché non assorbiti nel modello educativo e poi dentro la trappola sociale dell’annichilimento. Dopotutto il titolo Mahut prefigura tutto questo scialo, Mahut è infatti il nome di un tennista francese che giocò la più lunga partita di tennis della storia, perdendola.
“Credo che serva un allenamento alla morte, più per le persone care che per il malato stesso.”
Il primo episodio, quello di Bianca, quarantenne single, divorziata senza figli, alle prese con un padre afflitto dal morbo di Alzheimer, credo sia l’episodio più rotondo, il più riuscito, il più paradigmatico del nostro tempo in cui i figli sono già vecchi ma al contempo custodi dei loro vecchi sopravvissuti in una longevità catacombale a forza d terapie e farmaci, anziani che sono emblemi di un mondo che non c’è più, un mondo distrutto dall’interno, dissennato dal profitto, dall’ingordigia, un mondo senza più un collante vero che unisca i destini dei tanti in un cammino comune che sia un tracciato vivido della Storia, è perciò che questo mondo in realtà è fermo, stagnante, irrimediabilmente condotto al macello.
Bianca vive del padre, della sua immobilità, del suo silenzio, è aggrappata a questa figura in modo viscerale per la quale inventa la sua vita, per lui crea storie in cui lei è Marilyn, un’astronauta in viaggio nello spazio siderale, una ladra che trafuga la Mona Lisa dal Louvre, finendo per confessare a questo padre che pare una Sfinge l’impensato: un’eutanasia eseguita alla madre per pietà filiale a fronte di un rischiaramento della morte spesso troppo duro, abusivo della dignità, da far sopportare. Bianca che sputa dal terrazzo contro questo mondo che le è avverso, sulle teste di passanti inconsapevoli perché ciascuno anche se anonimo è colpevole di questa Storia senza Storia, di questo tempo abolito, senza più nerbo, passanti con o senza coscienza dell’abominio che è vivere. Bianca che si sogna scarafaggio come in Kafka perché questa è la statura standard dell’uomo nelle attuali società, ossia impotenza, appetiti grossolani, egoismo, ricerca di affermazione di un’identità sempre strangolata se manca la dimensione del collettivo, se questo collettivo è marcio dalle fondamenta. Ma l’episodio è carico di un amore disperato ma vero, quello verso un padre ormai impotente, repellente, fragile come un cristallo pronto a rompersi, questo amore contro ogni evenienza che sfida il mondo, che è eroico, che salva l’amore quando è una freccia scagliata verso il nulla, quando è trattenere il presente della vita ad ogni costo contro ogni precauzione, sfida che si sa perdente contro l’idea stessa del futuro ma perciò eroica, grandiosa come dentro una narrazione omerica (Achille conscio di perdere l’immortalità che pure si getta nella battaglia, invece di partire, via da Troia).
“Il destino è solo la giustificazione di chi delinea i propri perimetri, confortandosi all’interno di un
cerchio immaginario.”
Nel racconto di Livio costui è completamente avulso al Mondo, il solo interlocutore è il suo doppio Igor, ma l’incontro con Enea lo raccorda al mondo solo in apparenza, un tempo però che svela qualcosa, cioè che solo l’amore può salvare, che solo l’amore può preservare il mondo, ma questo amore una volta sorto in questa epoca malata si flette inevitabilmente, anelito che annuisce già morto e con ciò muore ogni speranza di raccordo col prossimo e cos deflette pure la metamorfosi dell’Io benigna che n’era obiettivo. È come un seme che sboccia ma il cui germoglio nasce debilitato, destinato a piegarsi e spegnersi alla fine, eppure il segreto è lì, nel suo germogliare indefesso, metodico perché quello è il fine della vita, vivere che è aspirare all’uscita dall’involucro, così è anche l’amore, il disvelarsi all’altro per cui si attua il vero completamento dell’Io che non è più il suo doppio.
“Tutti tendono a proteggere i propri confini, senza mai infrangere le mura di uno schema sicuro.”
Il terzo personaggio è integrato, lavora dentro una fabbrica di confetture (albicocche), Davide è un abitudinario, è in fabbrica da più di trent’anni, la fabbrica in realtà è la sua casa, una volta terminato di lavorare torna nella sua tana, è solitario, non ha affetti se non la showgirl che dalla TV pubblicizza materassi al lattice e per la quale si masturba ogni sera, non anela ad altro che a questo tran tran uguale ogni giorno, senza scuotimenti, senza emozioni, pare un bruco nel suo bozzolo da cui non vuole fuoriuscire, finché non viene intervistato da una psicologa aziendale, qui il dialogo è magistrale, Davide si mostra un osso duro, un interlocutore acuto, più osservatore della psicologa, più analitico, con una propria filosofia del tutto plausibile ma implacabile. Dietro la maschera del lacchè si profila allora l’irrequietezza di un uomo di pensiero che forse adora Schopenhauer e Nietzsche, un uomo che è al di là del bene come del male, un uomo che sarà letale se svelato. L’esito sarà il più tragico possibile. Un coup de théâtre degno delle carneficine made in Usa, dal cui contagio nemmeno l’Europa troverà a breve scampo.
“Quanto è vivo il sangue… D’altronde cosa ci rende più vivi del pensiero della morte?”
“Dunque resisti ancora un po’, perché ho ancora bisogno di te, di condividere con qualcuno quel residuo di umanità che mi è rimasto, donarti la mia compassione, mostrare pena e tenerezza nei tuoi confronti, avere qualcuno che stia peggio di me…”
Un libro quello di Madonia che vale la pena leggere e rileggere. Un divertisment che non è un diversivo, che la dice lunga sulle cose del mondo, una lingua molto acuta che non ha paura della vergogna di questo mondo alla fine.
Un vero scrittore di cui sono onorato di recensirne questa formidabile opera.
Marcello Chinca Hosch
Recensione a Mahut (Baldini+Castoldi) di Mattia Madonia.