Jeff VanderMeer ha raccontato di come una volta un libraio avesse cercato di convincerlo a non comprare Gutshot (nell’edizione italiana Viscere) di Amelia Gray. Il povero libraio gli vide il libro in mano e gli disse “Guarda che questo libro è strano forte eh,” e la risposta di VanderMeer fu “ah lo so che è strano, è per questo che ne voglio cinque o sei o sette copie”. Viene da chiedersi come possa essere fatto un libro giudicato talmente strano da essere troppo strano anche per uno scrittore come Jeff VanderMeer, che della stranezza ha fatto un po’ la sua bandiera. Soprattutto se quel libro ha l’endorsement importante proprio di VanderMeer che ha definito Amelia Gray “the real deal – an absurdist by nature,” la cui narrativa è “una triangolazione tra assurdo, surreale e weird,” ma non solo: ha un forte elemento psicologico e una carica comica inusuale.
Del resto stiamo parlando di un’autrice che quando ricevette l’incarico di scrivere un pezzo a sfondo culinario per Lucky Peach Magazine, invece di mettersi a pontificare su cucine molecolari e sonicatori, se ne andò in uno strip-club nei sobborghi di Los Angeles, un posto dove si servono dei jalapeño ripieni la cui piccantezza ricorda un po’ le dolci vampate che danno “birra fredda e xanax” e dove i cocktail avevano nomi tipo “Adios Motherfucker” (a base di vodka, rum, tequila, blue curaçao, sweet and sour mix e tonica). Stiamo parlando di un’autrice che ha risposto con arguzia e spirito da troll a una critica ingiustificata di un lettore deluso dall’assenza di suspence (e la presenza di troppo surrealismo) sul suo primo romanzo THREATS, invitandolo a ritagliare la costola del libro dove troverà le indicazioni per Barnes and Nobles e comprarsi Time to Kill di John Grisham (e allegando un assegno di nove dollari per coprire le spese). Stiamo parlando di un’autrice che è stata paragonata a David Lynch, anche se forse un paragone più calzante sarebbe con Yorgos Lanthimos. Stiamo parlando di un’autrice che ha prestato la sua follia come staff Writer di Maniac e della quarta stagione di Mr. Robot. Insomma stiamo parlando di una delle più interessanti (e divertenti) giovani autrici americane in circolazione di cui Pidgin ha pubblicato la sua terza raccolta di racconti Viscere, traduzione di Stefano Pironti proprio quella raccolta che un libraio ha sconsigliato a VanderMeer perché troppo strana e che VanderMeer ha comprato lo stesso.
Quelli di Viscere sono racconti molto brevi, scritti tra il 2010 e il 2015, due paginette in media, alcuni di appena una pagina, con un paio di eccezioni più corpose, e sono la naturale evoluzione delle flash-fiction del suo esordio Am/Pm (Featherproof, 2008) e dei racconti sperimentali seppur ancora un po’ acerbi di Museum of the Weird (F2C, 2010). Hanno perso quell’aria sbarazzina e un po’ ingenua da “hey guardate quanto sono adorabile” che avevano alcuni dei primi racconti, più attenti alla forma che ai contenuti, ma mantenuto la qualità aforistica delle prime flash-fiction, che anzi ha affinato in forme brevi che mostrano un lato fortemente favolistico. Una qualità che rimarrà pressoché intatta anche nei due romanzi, THREATS (FSG, 2012) e l’esofiction Isadora (Farrar Strauss and Giroux, 2017).
In un’intervista Amelia Gray ha detto che scrive storie perché vuole capire le idee, il che è un po’ il motore principale della mitopoiesi e di chi in generale cerca di tessere storie per dare uno strumento di comprensione della realtà. Curioso come la narrativa, o più in generale l’arte del racconto, abbia progressivamente perso il suo originario carattere mitologico e favolistico per diventare racconto borghese, narrazione popolare, cronaca del mondano. Ci sono però alcuni scrittori che hanno riscoperto e rinvigorito quell’afflato mitologico, tipico delle parabole bibliche, dei dialoghi platonici o della tradizione orale che dall’antichità si è persa nella modernità. I postmoderni di prima generazione, seguendo i racconti brevi di Borges, ad esempio, Donald Barthelme ma forse ancor più di lui l’eccelso Robert Coover, hanno saputo rielaborare e riscrivere fiabe, miti, leggende, riesumando il modo in cui l’uomo – pagàno o meno, scienziato o meno – trasforma la sua comprensione metaforica del mondo in una “verità” mitologica che dal mito trae la sua forza. Amelia Gray in un certo senso è un’erede indiretta e forse involontaria di quella pratica post-moderna, e come Coover, anche Amelia Gray giustappone i miti dell’America contemporanea a quelli classici, fino a mostrare come siano l’uno metafora dell’altro, scardina mito classico e mito contemporaneo e demistifica entrambi.
I racconti, o meglio, le micro-storie, di Viscere, hanno quasi tutti il proprio perno su delle idee, i pur tanti e pur affascinanti personaggi che si affacciano in quei racconti sono solo strumenti per puntellare quelle idee. Divisi in cinque parti che in origine erano intitolate rispettivamente Major Posits, Predation, Fables, Viscera e Resolve, i racconti di Viscere mostrano quasi tutte un impianto favolistico, quasi da parabola biblica, o da favola di Esopo, ma in modo obliquo e quasi rovesciato: non ci sono mai lieti fine, spesso la loro morale è che non c’è morale, il loro compito non è quello di ordinare un mondo caotico, ma di mostrare quella caoticità di cui è fatto il mondo e davanti alla quale siamo indifesi oltre che impotenti, e l’unica cosa che ci è dato di fare è quello che fanno i cittadini del finale di “Monumento”, che da disciplinati curatori si trasformano nell’unica cosa in cui possono trasformarsi. Così su “Nel momento” troviamo una coppia che oblitera tutto il superfluo per vivere la semplicità del momento e su “Un concorso” la celebrazione di quella semplicità, così come in “L’uomo davanti” e in parte anche in “Grazie” si celebra il bisogno umano di dare un significato alla propria vita a costo di plasmarla su un altro insensato.
In un certo senso i racconti di Amelia Gray rispondono alle esigenze della nuova letteratura così come era immaginata da David Foster Wallace, che su “E Unibus Pluram” vaticinava una generazione di futuri ribelli “antiribelli” che si occupassero dei “problemi e delle emozioni poco trendy della vita quotidiana” senza ironia e senza cinismo. Solo che Amelia Gray stempera il realismo auspicato da Wallace con quella tensione instabile tra ironia e nostalgia di cui parla invece Linda Hutcheon su “Irony, Nostalgia and the Postmodern.”
Su “Queste sono le favole”, il racconto che dà inizio alla terza sezione, quella delle Favole per l’appunto, cuce insieme quel realismo riscoperto da Wallace e la tensione verso un nuovo idealismo che dovrebbe nascere da una rielaborazione dell’ironia in altra chiave: inizia con una coppia che si trova in un Dunkin’ Donuts a Beaumont, Texas (un luogo poco trendy e molto quotidiano) e la protagonista della storia dice al compagno Kyle di essere incinta (altra cosa poco trendy e molto quotidiana) e finisce con la stessa coppia stesa sul pavimento probabilmente cosparso di e. coli di un motel di Corpus Christi dove probabilmente era stata assassinata Selena Quintillana Perez (altra cosa poco trendy e tragicamente quotidiana), per ribaltare senso e materia delle favole in un finale che ricorda un po’ Cuore Selvaggio di David Lynch.
L’ironia viene ricondizionata dal modo in cui vengono ribaltati miti e leggende, oltre che nella mescolanza di diverse attitudini: molto spesso i racconti di Viscere impastano elementi horror, comici, fantasiosi e persino sentimentali senza essere nessuna di queste cose singolarmente.
Così abbiamo “Labirinto” che è una riscrittura del Mito di Teseo con per ospite speciale il misterioso Disco di Festo, e dove l’ultima frase è da sola una specie di racconto brevissimo che in parte è anche il riassunto di tutto quello che viene prima. C’è un racconto – “Via da” – che cerca di dar voce alle vittime dello Strangolatore di Cleveland, quando per una certa logica perversa il mondo dei serial killer è diventato una specie di mitologia deviata della società contemporanea. “Viscere” parodizza gli Esercizi di stile di Raymond Queneau, e un po’ tutta la metanarrativa, spesso un vuoto esercizio semi-onanistico, ma non solo: riesce anche a mostrare come una prosaica goccia di sangue possa nascondere una storia “L’anno del serpente” è un’ottima metafora di come tendiamo a organizzare le nostre vite e la nostra società attorno a congetture.
La stessa attenzione al corporeo, alla fisicità dell’uomo in quanto animale è presente un po’ in tutti i racconti della quarta sezione (quella sperimentalmente denominata proprio Viscere). Su “Cara Katherine” un uomo si fa asportare un pezzo di tessuto cicatrizzato per poi vedervi dentro i resti cellulari della gemella abortita. È un racconto sempre più surreale che alla fine assume tinte quasi horror e ci mostra come tutti noi siamo (anche) il prodotto dei nostri stessi meccanismi auto-produttivi. Su “La vita dei fantasmi” c’è una madre morta che si rimaterializza sotto forma di brufolo, su “Cinquanta modi per mangiare il tuo amato” contrasta una fase dell’innamoramento con immagini efferate i limiti del cannibalismo, tipo “Quando fa il letto, aprigli la vena nel gomito” o “Quando ti chiede di uscire di nuovo con lui, pugnalalo con un taglierino e succhia la ferita”, fino a “Quando ti chiede se prendi la pillola, strizzagli il pavimento pelvico finché non gli si stacca il pene”. Su “Il cigno come metafora dell’amore” dimostra in una pagina scarsa il lato fisico, poco attraente e spesso disgustoso dell’inconveniente di avere un corpo, e di come spesso tendiamo a idealizzare e idealizzarci, perché per quanto bello e maestosi i cigni “mangiano erba, carici e piante da stagno, tutte che abbondano di sporcizia. Si nutrono anche di insetti, lumache e di gamberetti freschi se ce n’è uno nelle vicinanze” e possono “risucchiare intere scuole di anfibi larvali, processarli e cacarli, e poi a volte si [possono] sedere nella merda o camminare su di essa”. Fisicità che esplode, quasi letteralmente su “La sera dell’appuntamento,” dove assistiamo a un crescendo di spettacoli orripilanti e orrificanti in cui i protagonisti iniziano a staccarsi di dosso pelle, carne, ghiandole e organi interni in un’orgia Cooveriana di recrudescenze fumettistiche e ferali “perché è questa la VITA, teste di cazzo! Questo è ciò che significa essere vivi!”
Paolo Latini