Silvia Bottani, giornalista, critica, autrice del romanzo di recente pubblicazione Il giorno mangia la notte (SEM, 2020) dove si ritrovano le atmosfere de Il capitale umano, regala a Satisfiction questo racconto inedito con protagonista un uomo soprannominato “Il Maltese”. È alle prese con la risoluzione di un “problema” verificatosi in un’azienda agricola. Qui i braccianti lavorano per poco, costretti a fare i conti con la crudeltà dei loro simili. Il Maltese è avvezzo a sistemare in fretta e senza errori “i problemi, prima che diventino guai” così si precipita sul posto, raggiungendo il “caporale” che l’ha chiamato. Ma una maledizione è in agguato, una maledizione che turberà i suoi sogni, che ha a che vedere con la sua vita e quella dei braccianti la cui condizione lavorativa e umana pare essa stessa una maledizione. Un racconto potente che affronta con franchezza il tema dell’umanità ferita costituita dalle storie degli ultimi, un racconto che ci porta a interrogarci sulle miserie umane e lo squallore di certi luoghi dove uomini sono trattati alla stregua di oggetti di proprietà di cui è bene liberarsi quando non servono più. Silvia Bottani con una scrittura che non lascia scampo affronta qui a viso aperto la parte ingiusta del mondo, dove insistono pregiudizi e violenza, dove il più forte mangia il più piccolo, dove il corpo diventa bersaglio di estrema ferocia.
Silvia Castellani
#
«Quando?»
Il Maltese guarda la lucertola immobile sul muretto.
«Arrivo».
Un problema da risolvere. Subito. Si infila il telefono nella tasca del giubbotto e sale sullo scooter, diretto verso i campi a sud ovest della città. Le case basse, scrostate dall’incuria, gli sfilano accanto, mentre la marina sonnecchia nel mezzogiorno. Ne ha viste, di città, ma nessuna gli appartiene. Conosce migliaia di strade, una vale l’altra. Fa ciò che deve fare, senza concedere spazio all’immaginazione. I luoghi sono soldi.
L’azienda agricola domina i campi di ulivi, sembra deserta. Il Maltese abbandona lo scooter davanti al portone e percorre il perimetro dell’edificio, superando il magazzino. Un capannello di uomini staziona vicino a un trattore fermo: al centro, una sagoma coperta da una tovaglia a fiori. Quando il Maltese si avvicina, gli schiavi abbassano lo sguardo e arretrano dietro al corpo che giace sulla terra arata, chinando la testa. Solo le cicale rumoreggiano. Gli uomini attendono una sua parola, immobili e scuri come tronchi di legno bruciati. D’un tratto, le note dell’Inno alla gioia, scandite da una chitarra elettrica distorta, riverberano nell’aria. Il Maltese si volta e vede il caporale che si avvicina, diteggiando sul cellulare.
Quando lo raggiunge, l’uomo ha il respiro affannato. Si passa la manica della camicia sulla fronte lucida e allunga il gesto solcando il cranio pelato, asciugando le gocce che gli imperlano la testa. Gli chiede cosa deve fare.
Il Maltese si riflette nelle lenti a specchio dell’uomo. Sospira. Il suo lavoro è una inesauribile concatenazione di problemi da risolvere in fretta e senza errori. Tutti i braccianti sono fermi, in attesa, qualcuno con gli occhi bassi, altri con un’espressione di sfida, con quello sguardo spento e feroce che il Maltese ha incrociato sempre negli occhi dei miserabili.
«Buttalo nei liquami».
Il caporale annuisce.
Un corvo frulla le ali e si leva da un ramo, si fionda verso una preda che nessuno vede. Un ragazzo alto e con i piedi lunghi si stacca dal gruppo e si fa avanti, con un dito indica il corpo sotto la tovaglia.
«Lui papa».
Ha una voce cupa da adolescente. Si inginocchia, scava la terra con le mani, indica il corpo, poi la piccola buca.
Il Maltese pensa per un attimo alla figlia, che a quell’ora impara a infilzare la pasta con la forchetta. Questa è una rogna, lo sapeva già quando gli è vibrato il telefono in tasca, perché in tanti anni ha imparato a riconoscere un problema prima ancora che si trasformi in un guaio, con un intuito ereditato dalla nonna materna, una vecchia mezza orba che con l’unico occhio sano leggeva le carte nella Plaka di Atene. Non può spiegare a quel ragazzo che deve buttare il corpo del padre nella pozza perché i liquami lo corrodano, in modo che non ne rimanga traccia. Pensa in fretta. Non vuole rivolte, non vuole casini.
Si avvicina al ragazzo.
«Oggi per te è giornata libera. Non farti rivedere prima di domani».
Gli dà una spinta sulla schiena invitandolo ad allontanarsi. Il ragazzo fa qualche passo incerto. Risucchia con uno schiocco il catarro dalla gola, poi sputa in prossimità delle scarpe del Maltese. Le sue labbra si muovono, pronuncia delle parole senza voce. Il Maltese riconosce in quelle frasi masticate una maledizione. Con un balzo, afferra il ragazzo per il bavero e lo solleva.
«Vuoi finire anche tu nella fossa?»
Il ragazzo lo fissa, poi ricomincia a muovere le labbra senza emettere alcun suono. Il Maltese lo butta a terra, come per allontanare da sé una cosa repellente, gli grida di andarsene, e questo si alza e corre verso le baracche di lamiera, i passi che pestano la terra come pugni. Il Maltese lo fa senza pensarci: il segno della croce con il pollice sulla fronte e tre sputi in sequenza, senza saliva, come gli insegnò la nonna. Caccia la sfortuna, diceva, e chi la porta con sé.
Un gesto della mano del caporale e i braccianti si disperdono, sono mosche. I due neri rimasti sollevano il corpo coperto dalla tovaglia e lo portano verso la pozza, tenendolo per le mani e i piedi. Un movimento di altalena e un breve tuffo, uno schiaffo sordo, poi la merda dei maiali si richiude sul corpo. Solo qualche bolla d’aria che risale in superficie sembra lamentarsi di quella morte.
Tornate al lavoro, grida il caporale con la camicia ormai incollata alla schiena. Il Maltese allunga la mano e l’uomo gli consegna uno zaino di pelle nera. Lo apre per un controllo veloce, i mazzetti di banconote sono ordinati dentro un sacchetto trasparente. Li conterà poi a casa. Richiude lo zaino e annuisce, ci vediamo settimana prossima. Infila la chiave nel baule dello scooter, prova a forzarlo. Lo apre con un paio di manate e ci butta dentro lo zaino. Deve ricordarsi di ripararlo, appena possibile.
Tutto attorno meriggia. Mentre si allontana, le fronde degli ulivi cariche di frutti gli gravano sulla testa. La campagna attorno irraggia luce ma un presentimento si allarga e si stende, velandogli gli occhi. Quando succede, le cose prendono un ordine diverso, i segni si moltiplicano e lui riesce a vedere il filo di ragno che lega le cose le une alle altre. Non è bene, questo. Non è bene.
La strada a ritroso è una geometria malefica: gli animali morti sul ciglio della strada gli sembrano vittime di una pestilenza, i corvi a volo radente gracchiano più forte del solito, una zingara ferma al semaforo lo fissa, ha due occhi che sono chiodi; ogni traliccio è una croce e uno scirocco insano lo avvolge in un calore asfissiante che non cede neppure dopo il tramonto. Lui sa che il vento del sud porta la malattia, glielo diceva sua nonna.
Né la doccia né il conteggio dei soldi riescono a metterlo al riparo da un pensiero che lo infesta, qualcosa di grave e senza nome che gli è calato addosso. Quella sera si addormenta come in preda alla febbre, cercando di immaginare le disgrazie della maledizione del ragazzo, come se dargli una forma potesse bastare. Rigirandosi nelle lenzuola umide, la veglia si confonde con il sonno, le immagini del giorno si attorcigliano e si trasformano in una materia viscosa fatta di paura e di perdita che lo precipita per un tempo interminabile di incubi.
Il mattino dopo, il Maltese si sveglia ed è come se non avesse dormito. Le finestre sono aperte, un’alba luminosa riempie la camera di luce mentre il mare appena increspato risplende di un celeste lavato dalla notte.
Butta in lavatrice i vestiti del giorno prima e indossa una camicia chiara. Accende la radio mentre sorseggia il caffè, la voce del conduttore lo rassicura. Con circospezione, cerca tutt’attorno i segni che lo avevano spaventato. Quando arriva a prendere Sofia a casa della ex moglie, il velo si è definitivamente dissolto e sente che l’ordine delle cose è stato ristabilito. Forse è guarito, la maledizione se l’è portata con sé il buio.
Con le braccia aggrappate attorno alla vita del padre, la bambina dondola i piedi, seguendo docile le pieghe dello scooter. Entrambi si godono quei pochi chilometri insieme, un momento che appartiene solo a loro.
Arrivati davanti all’asilo, il Maltese l’accompagna fino all’ingresso, davanti al quale è parcheggiato lo scuolabus vuoto. La bacia sulla guancia. La bambina trotterella nell’atrio, poi si volta per salutarlo un’ultima volta. Gli sorride, mentre la mano di lui oscilla ancora un po’ prima di rimanere sospesa.
Per qualche istante, il Maltese continua a guardare la figlia voltata di spalle che si allontana tenendo la maestra per mano. La vibrazione del telefono nella tasca lo scuote. Gira attorno allo scooter per riporre il casco della bambina, lo aspetta il lavoro. Lo scuolabus nel frattempo riparte. L’autista guarda lo specchietto retrovisore ed è solo per una svista in una carriera di ventiquattro anni che impatta contro il Maltese, la cui attenzione è divisa tra la spalla e l’orecchio, dove trattiene il cellulare, e la serratura difettosa del bauletto con cui armeggia. Uno strattone violento lo solleva, e poi l’asfalto addosso e rumore di cose che si rompono. I suoi occhi rimangono aperti – o almeno così gli sembra – per tutto il tempo: prima piano, poi sempre più convulsi, i piedi delle persone si accalcano attorno a lui. Il Maltese è un sacco buttato a terra, poco più in là lo scooter rovesciato. Attende calmo, senza stupore, che il giorno si compia.
Silvia Bottani