Quando “L’amico fedele” (Garzanti editore, 224 pag. Traduzione di Stefano Beretta) venne pubblicato nel febbraio del 2018, né l’autrice Sigrid Nunez né il suo editore americano Riverhead Books, si aspettavano che diventasse un best-seller e nemmeno che vincesse il National Book Award per la fiction.
La Riverhead Books aveva dichiarato su NewYorker che “Il libro tratta di morte, di cani, di scrittori e delle relazioni tra docenti e studenti. Tutti argomenti complicati che l’autrice descrive con una voce nuova – particolare – e nessuno era sicuro che sarebbe piaciuta ai lettori.”
Si sbagliavano. La forza di questo romanzo è proprio nella voce scelta dall’autrice: la capacità di esplorare il lutto in modo intellettuale, intimo e solitario attraverso la vita della narratrice/scrittrice mentre racconta la mondanità letteraria newyorkese, con citazioni e aneddoti fino a ritrovarsi a gestire un alano arlecchino più grosso di lei (la figura del cane è così importante che è presente in quasi tutte le copertine internazionali del libro.)
“L’amico fedele” è quindi un romanzo sulla vita di una scrittrice e insegnate di scrittura dopo il suicidio di un caro amico.
“Mi manca. Mi manca ogni giorno. Mi manca moltissimo. Ho detto allo strizzacervelli: Non sarei affatto felice se lui non mi mancasse più. Non puoi mettere fretta all’amore, come dice la canzone. Non puoi nemmeno mettere fretta al dolore.”
In realtà era più che un amico: era stato il suo professore e mentore di scrittura e – da giovane – tra di loro, c’era stata la storia di una notte. Non era stata l’unica studentessa che aveva sedotto, ma la loro amicizia era riuscita a sopravvivere a quell’ unica volta insieme, ai tre matrimoni di lui e ai molti viaggi di lavoro in giro per l’Europa.
“Lo strizzacervelli pensa che io sia innamorata di te. Pensa che io sia sempre stata innamorata di te. Questo me lo dice in un tono diverso da quello gentile che usa di solito, non propriamente scortese ma venato da una punta di impazienza. Questo complica l’elaborazione del lutto, mi spiega. Ti sto piangendo come farebbe un’amante. Come farebbe una moglie.”
Alla National Public Radio, Sigrid Nunez ha raccontato che aveva iniziato a scrivere questo libro perché si rendeva conto che conosceva un bel po’ di scrittori che avevano in mente l’idea del suicidio. E quando ha finito il romanzo (anche se non era ancora stato pubblicato) una di quelle persone si è davvero suicidata saltando dal Golden Gate Bridge. “È un tale mistero. In realtà, non credo sia così facile capire cosa c’è nella mente delle persone quando tentano davvero il suicidio. Però trovo interessante cercare di scoprire cosa succede in quelle che rimangono.”
Il romanzo è pieno di riflessioni sulle relazioni appropriate e inappropriate tra studenti e insegnanti, e su cosa vuol dire essere uno scrittore nel mondo dei social media. Su Books by Women, Sigrid Nunez ha dichiarato: “un tempo, era un dato di fatto che se volevi diventare uno scrittore era in parte perché eri un lettore, un lettore serio, qualcuno che amava i libri. Oggi non sono più sorpresa quando uno studente di scrittura annuncia che non legge molto, che in realtà non gli piace, che non vuole leggere il lavoro di altre persone, vuole solo che le altre persone leggano il suo di lavoro.”
In “L’amico fedele” la Nunez critica in modo molto diretto tutto il mondo letterario. “Gli scrittori sono davvero come i vampiri”, dichiara un personaggio. Un altro autore paragona l’industria editoriale a “una zattera che affonda e troppe persone stanno cercando di salirci”. Nel romanzo c’è anche un elenco di alcuni degli insulti che anche altri autori hanno effettuato su questo mondo: gli scrittori sono “mostri” (Henry de Montherlant), “aggressivi, ostili” (Joan Didion) e “moralmente indifendibili” (Janet Malcolm).
Ma nel libro ci sono anche riflessioni sullo scrivere e su potere della scrittura senza dimenticare le tantissime citazioni (c’è più volte la nostra Natalia Ginzburg, anche in una delle tre epigrafi del romanzo).
“Certo, mi preoccupavo che scriverne potesse essere un errore. Scrivi qualcosa perché speri di dominarlo. Scrivi di determinate esperienze in parte per capire ciò che significano, in parte per non perderle nel tempo. Nell’oblio. Ma c’è sempre il rischio che accada l’opposto. Perdere il ricordo dell’esperienza in sé in cambio del ricordo dello scriverne. Come le persone il cui ricordo dei posti dove hanno viaggiato è in realtà solo il ricordo delle fotografie che vi hanno scattato. Alla fine, probabilmente, la scrittura e la fotografia distruggono più passato di quanto ne conservino. Quindi potrebbe succedere questo: scrivendo di qualcuno che si è perduto – o semplicemente parlandone troppo – si finirebbe per seppellirlo sul serio.”
“Odio l’idea della scrittura come forma di catarsi perché sembra che così non si possa scrivere un bel libro. E, badate, non è che uno possa sperare di consolarsi della sua tristezza scrivendo, ammonisce Natalia Ginzburg.”
“È curioso come l’atto di scrivere induca alla confessione. Flannery O’Connor scrisse una serie di lettere a una sconosciuta piene di riflessioni su se stessa e sulla letteratura.”
Sigrid Nunez conosce molto bene il mondo letterario: è redattrice alla New York Review of Books, docente in Amherst, Princeton e Columbia. Nei suoi sessantanove anni di vita, ha pubblicato otto libri tra i complimenti dei colleghi ma nel silenzio del grande pubblico, prima di questo ultimo romanzo. Ha sempre creduto che il mestiere dello scrittore sia qualcosa di intimo, piuttosto che un esercizio di auto-promozione e branding. “Sono diventata una scrittrice non perché cercavo un grande pubblico ma piuttosto perché pensavo fosse qualcosa che avrei potuto fare da sola”, ha detto Sigrid Nunez alla premiazione del National Book Award per Fiction. “Ho scoperto che scrivere libri ha reso possibile l’impossibile: essere rimossa dal mondo e di far parte del mondo allo stesso tempo.”
Sin da quando era giovane si era proposta un unico obbiettivo: “Volevo solo fare una cosa bene: scrivere”. Ed è questo che ha fatto per la maggior parte della sua vita.
Durante l’intervista su National Public Radio, Sigrid Nunez ha dichiarato che “L’amico fedele” è in gran parte autobiografico. Le parti vere sono soprattutto quelle casalinghe. Il lavoro dell’autrice riprende quindi il filone autobiografico o semi/autobiografico che è diventato popolare negli ultimi anni, come la trilogia di Outline di Rachel Cusk o con i lavori di Karl Ove Knausgaard (che il cane Apollo mangiucchia quando è lasciato a casa da solo).
Il romanzo trova una svolta proprio quando arriva Apollo, il grande e anziano Alano arlecchino del suo mentore. Il cane è traumatizzato dalla inspiegabile scomparsa del suo padrone, ulula durante la notte, ama la lettura e si addormenta accanto a lei sul suo letto.
“Che cosa siamo, Apollo e io, se non due solitudini che si custodiscono, delimitano e salutano a vicenda?”
Gli amici temono che il dolore l’abbia resa vittima del pensiero magico (come l’anno della Didion) perché la protagonista si rifiuta di separarsi dal vecchio cane tranne che per brevi periodi di tempo e ne diventa sempre più ossessionata.
“…questa è follia, no? Credo che se sarò buona con lui, se agirò in maniera disinteressata e farò dei sacrifici, credo che se amerò Apollo – il bello, anziano, malinconico Apollo – una mattina al mio risveglio lui sarà scomparso e al suo posto troverò te, rientrato dal mondo dei morti.”
L’amico Fedele è scritto quasi tutto usando la seconda persona, un “tu” che a volte è rivolto al suo mentore, a volte al cane Apollo, e talvolta a qualcuno non identificato. Nella testata “Literary Hub” l’autrice dichiara che questa scelta stilistica non è qualcosa a cui ha lavorato o a cui ha pensato molto. “Ho iniziato il libro e poi mi sono resa conto che mi stavo rivolgendo a questa persona. Ma sapevo anche che non volevo che fosse coerente; volevo che entrasse e uscisse. Non l’ho pensato come un diario, ma a una lettera. Volevo quel tono intimo e urgente – l’idea di parlare con qualcuno con voce sommessa – ma non necessariamente sempre con lui. A volte mi rivolgo al cane, a volte mi rivolgo solo all’aria, ma volevo il tono di una lettera, una lettera d’amore, non necessariamente nei contenuti, ma con la stessa intensità e intimità.”
L’amico Fedele si apre con un’epigrafe provocatoria di Nicholson Baker: “La domanda a cui un romanzo sta davvero cercando di rispondere è: vale la pena vivere?” E sembra che Sigrid Nunez analizzi da vicino il problema e trovi la risposta nelle sue intriganti osservazioni e domande, nel suo modo di guardare il mondo e prendersi cura dell’alano arlecchino.
“Ciò che ci manca – ciò che amiamo, perdiamo e ciò che piangiamo – non è questo che ci rende chi, nel profondo, siamo veramente?”.
Michele Crescenzo