Quell’anno, non ricordo con esattezza quale, ma era uno preciso, era l’anno in cui un film mi annunciò la sconsideratezza dell’amore. Le ragazze non conoscevano la sconsideratezza dell’amore.
Avevamo ripreso le nostre notti aride come la creta in certi deserti, la terra cretosa, i deserti dello spirito, ma a chi rivelare talune indicazioni? La rivelazione era un sacrificio indolente e disperato, non era ancora il tempo, era il tempo intirizzito delle poche e miserabili faccende, piccole cose, o al limite un vello duro, implacabile conficcato sulle nostre bianche e tenere spalle. Ad esempio il mio amore muliebre e tossico, ma era una vecchia storia, oramai c’era Timò. Voglio dire, c’era l’ombra di Timò.
La notte nei privé, Monica riprese a svestirsi, sul tavolino traballante, le bottiglie, i flûte sul pavimento, le risate isteriche uguali a un singulto. Signori facoltosi abbrancati a indicibili pulsioni. Noi, le ragazze, rigide in corolle marmoree, incapaci di esplodere nell’oscurità, nella penombra che si fa vita colpevole, ad una certa ora della notte. Da una certa ora in poi, la vita nella penombra trucida corolle incapaci di esplodere. Monica si agita convulsamente, rovinerà sul pavimento. Il mio tacco brilla e preme e frantuma il cristallo. Interroga una rabbia segreta, vorrebbe battersi il petto, rivendicare alla maniera di una pia greca, mendicare, qualcosa del genere. Dov’è il mio amore? E urlare. Ridatemelo. Oppure: perché?
Un milione di volte: perché? E non chiedersi altro. In che misura mancasse un accidente, un fatto, un’azione, un completamento morale. Di quale monotono crimine andavi accusando l’esistenza, ricusando l’universo intero? Quale crimine torceva le tue budella? Eri un rifiuto a priori, non che te lo avessero confidato, chi poi avrebbe dovuto, un suggerimento consono dunque opportuno tale da farti ammutolire, te o gli altri. Considerare meno severamente un giorno e dopo l’altro, considerare con indulgenza, le viltà, l’orribile e costretto campare di figuri simili a bivacchi cascanti, pelle e carne cascante, in realtà solo figuri, o umani, o individui fedeli al gesto ripetuto: fallo. E io – o a guardarmi da su – tu – non solo un pronome, ma un vocativo, un’esortazione – tu non eri troppo giovane per aver veduto afflitta il deflagrare sciagurato di tutti gli universi, di solito i tuoi?
I signori al tavolo si guardavano intorno, aspettavano più che altro che una di noi accennasse ad un assenso.
Un sì, gettato come l’esca.
Il film che mi aveva insegnato l’amore sconsiderato era L’amante, di Annaud. La traduzione cinematografica di un romanzo della Duras. La dico così, come se fosse una congiunzione incidentale. È molto di più. Io e la Duras. Sottaciute corrispondenze, capitano, non devi necessariamente spiegare. Io e la Duras.
L’uomo cinese, i risciò, gli scuri di una garçonnière. Un corpo nudo, bianco. Il sudore rintocca ogni scoperta o carezza, il brusio fuori, nel pomeriggio lucido, violento, con nuvole gravide, ridondanti sopra risaie grigiastre. I sampan lungo il fiume riesumante povertà inenarrabili. Sguatteri al mercato.
L’amore si consumava, la fiamma bruciava il sospiro reo, di entrambi. La fiamma brucia la candela di incenso.
Il cinese è un uomo molto bello. La sua pelle è glabra.
Senti qualcosa palpitare, non individui il nesso, stringi le gambe, una sull’altra.
Non lo farai mai veramente per un uomo. Non allora.
Monica si agitava. Notavo i fianchi larghi, il seno che cedeva senza orgoglio. La vidi grassa, anzitempo. Una matrona, grassa e accaldata e bagnata di umori e di urina.
Una vacca. Come certe baldracche che ho incontrato un giorno, anni dopo… oh, no no.
Devo tacere. Non confondo le stagioni. Intersecare i piani e l’oltraggio, non funziona, no. Non serve a raccontare.
La stagione successiva fu il tempo giusto che combaciava con la sconsideratezza dell’amore tra l’uomo cinese, il cinese, e la Duras. La ragazzina.
Prima, ho attraversato il sentiero di terra cretosa, crepe tra un declivio e l’altro, un gradone e l’altro. Non so come piazzare Timò.
Timò, alla fine dei 250 ranghi.
Eccoti.
Ti vedo. Vorrei correrti incontro.
Credo che avesse occhi verdi e curiosi. Ora ricordo male. Era chiaro di capelli, era alto, forte.
Non immagino davvero cosa avesse trovato in me.
Mi chiamavano la greca, al quartiere latino, urlano gioiosi gli algerini da brasserie confuse e pregne come suk.
Per Timò ero l’italiana, sì, può darsi, un po’ greca. Mi prendeva il viso tra le mani. Mi guardava come a trovarvi una risposta.
Mi baciava e smettevo di interrogarmi o avvilirmi sulla parola tuonante a cui non dare esito, come lei non dava tregua a me.
La parola tuonante era il gendarme sull’assedio, la vedetta con la baionetta centrata, il bersaglio era antico, mon petit.
Monica scende dal tavolino. Ubriaca, maldestra. Si accascia su sé stessa, la cera di una candela, la fiamma che ha bruciato inutilmente. Il vecchio accompagnatore l’aiuta a rimettersi su, la solleva.
Ostap con la sua bella.
Qui rido. Il vecchio non è l’aitante cosacco. Tantomeno Monica la sua bella.
Taras Bul’ba. Appena letto, secondo ripiano della libreria di mio padre. Mi colpì il nome. Taras.
Monica freme. Pallida e sonnolenta. Sembra ancora più bella. La bellezza madida. Le donne devono detenere una bellezza madida, mostrare un pallore fremente, respingere per l’afrore.
Vanno via. Il vecchio accompagnatore. Non era poi così vecchio. A modo suo, direbbe una signora distinta, piacente.
L’avrebbe presa in macchina, mentre Monica dormiva o vegliava nell’ubriachezza su sogni succeduti, insicura se fossero i suoi; come talvolta lo ero io sui miei universi franati, irrevocabilmente miei purtuttavia.
L’avrebbe presa con fretta e lei avrebbe accolto nello stupore un piacere dimentico. Di chi era? E l’uomo? Il vecchio accompagnatore, uno come un altro.
Era la nostra sventura, ammettere che, uno come un altro, era l’imbarazzante prassi.
Non conoscendo altro, chiamavamo amore tutto e tutto il suo contrario.
Alla fine della notte, quando la vita è tenebrosa e stanca, la voce di Gloria Gaynor era una chiusa insopportabile. Avevo voglia di morire, per l’instancabile miseria che erompeva dai volti. Un pastone di soggetti agitanti tediosità.
La prassi. Tornare. Dove tornare? Dormire con la spossatezza del desiderio che ambisce al sonno per sempre. Un sonno dove nascondersi. Non mi riparava dall’assedio privo di riletture elegiache.
Tornavo a casa, con una sola ambizione: che il mondo sparisse, che il mondo ci seppellisse in quel luogo ameno e di pochezza.
Così dolente, mi addormentavo. Una mano sulla fronte, fino al silenzio, al viaggio verso il torpore, girone dopo girone.
Eppure avrei ritrovato il giorno, temendolo come sempre. Svegliandomi con la sola parola, era un nome, una invocazione. Il sogno rimasto rappreso, la parola sul palato.
Chi era costui?
(continua)
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