Nelle Illusioni perdute di Honoré de Balzac si racconta la storia di un giovane poeta, Lucien de Rubempré. Che cosa lo rende interessante? Una mancanza di completezza. Il caro Lucien ha il tragico difetto di essere un provinciale, ma non fino in fondo. Se lo fosse in modo totale, assoluto, fino all’ultima goccia del suo essere – cioè come tutti i suoi compaesani – potrebbe vivere tranquillamente la sua vita, senza alcun patema se non quello di trovare una moglie, fare dei figli, e tirare avanti con qualche lavoretto da niente. Insomma, gli basterebbe poco per farsi risucchiare nel ventre caldo della Provincia, dove da sempre gli uomini barattano le loro ambizioni, il loro cervello, in cambio di sicurezza: qui abbondano case e divertimenti a buon mercato, i soliti discorsi, qualche fiera e la classica osteria. Si vive nel torpore, quanto basta per fingere di essere vivi; il resto non serve. Per eccellere è sufficiente un bon mot, tirato fuori al caffè, la lettura di qualche giornale e tanti saluti: la concorrenza scarseggia, poi a nessuno frega niente. Ma Luciano non è solo un provinciale, è questo il suo dramma: una parte del suo essere appartiene al mondo. Si sente ardere da una gelida febbre, dentro, che all’inizio è una voglia di poesia – cioè un dar forma, sia pur vagamente, a certi sentimenti – e dopo la voglia di farsi notare, diventare qualcuno. Intendiamoci, lui è in perfetta buona fede: se sgomita per la gloria, è soltanto per un Fine Superiore, cioè per far conoscere le sue opere. A lui non importa niente dei velluti, dei lustrini, delle ciance raffinate – o almeno, così crede. Ma le luci della ribalta non sono in Provincia. Se si vuole pubblicare, bisogna prima andare alla conquista della Francia Letteraria. Entrare nel suo cuore dorato, pieno di stucchi – Parigi, Città Dei Sogni e Delle Illusioni… ed ecco che il nostro Lucien, dopo mille peripezie, si ritrova a vivere in una squallida soffitta (qui tutto costa carissimo) a campare di espedienti, senz’altra consolazione che quel pensiero – sì, un giorno ce la farò. Un giorno pubblicherò il mio libro! Venderò un mucchio di copie, e il mio nome resterà in eterno. Dunque i miei sacrifici saranno giustificati. Intanto soffro la fame, il freddo, mi consumo gli occhi su un manoscritto, passo le mie giornate chiuso in biblioteca, e loro li sento, sì – non fanno che prendermi in giro… ma la vita ha pure un senso dopotutto. E il senso è racchiuso in un libro.
Conoscete questa storia: come la vita di Madame Bovary, anche quella di Lucien è in un certo senso esemplare. In questo personaggio di Balzac – forse neanche troppo riuscito – si cristallizzano milioni di esistenze, quelle di uomini e donne che a frotte sono partiti dalla provincia, per dare l’assalto alla metropoli. E quanti sono finiti schiacciati, triturati, fagocitati in qualche bassofondo, incapaci di far fronte al suo ritmo micidiale, alla sua concorrenza frenetica, alle mille spese che servono ogni giorno, soltanto per non soccombere! In ogni settore, non solo nella Letteratura, le eccellenze si ergono in cima grazie a pile enormi di caduti, di sconfitti, di gente che alla fine ha ceduto. Ma di tutti gli “aspiranti”, gli scrittori sono di certo i più fragili. Il loro rapporto con la pubblicazione – e dunque col magico mondo dell’editoria – è addirittura esiziale. Un sarto è tale anche se non lavora per Hermés, e quanto al cuoco, non ha certo bisogno di entrare da Cracco – può tranquillamente lavorare in un buco, in qualche osteria – per chiamarsi così. Il pittore esiste pure se non è mai passato da una galleria – eccoli là i suoi quadri, li potete guardare – il cantante si esibisce ovunque, persino per strada, ma lo scrittore… per lui è diverso. Un manoscritto non è un libro. Ha un grado di realtà differente, comunque la si pensi. Vero, oggi c’è Amazon, il self-publishing (eccomi qua!), eppure le regole del gioco sono rimaste le stesse dei tempi di Lucien. Oggi non è più necessario andare a Parigi, o a Milano, si fa tutto per e-mail; l’Italia non ha un centro, quindi i contatti ci sono benissimo anche a Roma o a Bologna, come pure a Torino; eppure rimane il fatto che uno scrittore non-pubblicato NON ESISTE. Si ha un bel dire che le case editrici non sono nessuno, che sono pieni di raccomandati, di venduti, con zero rispetto per l’Arte: senza di loro non c’è Letteratura. Buffo ricordare che il più grande scrittore del Novecento – uno dei più grandi di tutti i tempi – sia stato pubblicato poco in vita. Kafka avrebbe dovuto attendere la morte per vedere stampati alcuni suoi capolavori. Eppure, per quanto confortante sia questo pensiero (e nessuno di noi è Kafka) alla fine i primi a pensarlo sono proprio gli scrittori: senza una Casa Editrice, non siamo nessuno. O al massimo degli impostori. Anche il lettore, per quanto appassionato, non guarderebbe mai a un manoscritto come si guarda a un libro (mentre con un quadro, o una canzone, potrebbe benissimo succedere: hanno meno bisogno di legittimazioni). Di qua si capisce quanto sia delicato, questo rapporto, quale peso abbia nella definizione dell’Arte Letteraria; e di come si porti dietro deliri inconfessabili, fatti di ipocrisie e menzogne, di mille cattiverie, sempre dentro un groviglio indissolubile. L’Autore e la Casa Editrice: simul stabunt, et simul cadent. Per sempre insieme, in un intrico di amore e odio perenni, vecchi come la Bibbia. Ma il discorso è anche attualissimo, visto che oggi ci sono legioni di scrittori (o presunti tali) che proprio nella “Società dell’Immagine” si riversano a frotte sull’Editoria, intasando la Rete con i loro manoscritti. Milioni di parole in formato Word, che finiscono ogni giorno nella posta di agenti, editor, critici e giornalisti, forse solo per essere cestinati… “che ci vuoi fare?” mi disse un giorno una libraia (stavo cercando di fare una presentazione, ovviamente mi rispose di no). “Oggi tutti scrivono, nessuno legge… è ovvio che va a finire così”. Difficile darle torto.
Ma cos’è oggi l’Editoria? Ammesso e non concesso che questo concetto, “Editoria”, abbia un referente reale, e non sia già andato in pezzi come mille altre cose, di cosa parliamo quando ci sono di mezzo le case editrici? Mi riferisco ovviamente all’Italia. Matteo Marchesini ha scritto un libro molto bello, un’opera preziosa, proprio per rispondere a questa domanda. Il suo infatti non è un libro di critica letteraria, o meglio, lo si può definire tale solo in parte; l’analisi dei vari autori emerge per così dire a rovescio, come un’ombra proiettata su uno specchio. Il suo vero obiettivo, apertamente dichiarato, è quello di mettere in luce alcuni meccanismi dell’industria culturale, così come si è fatta dal Dopoguerra in avanti. L’occhio di Marchesini è sempre lucido, smagato: dove gli altri vedono ribelli, poeti maledetti, avanguardisti in odore di lotta e marxismo, il nostro vede un trucco di pagliacci. Un tentativo – neanche troppo furbo, in realtà – di farsi conoscere, sempre con il fine di prendersi due soldi, di pubblicare un articolo, di conquistare una cattedra o una rivista, per poi agguantare il Santo Graal: la pubblicazione. In questo senso, buona parte della Letteratura del Dopoguerra sarebbe stata fatta non secondo criteri di qualità, anche spuri, ma seguendo astutamente mode, tendenze, inclinazioni, correnti culturali e giornalistiche, e soprattutto, le ubbie di certi gruppi di potere, furbescamente intrufolati nell’industria editoriale. Che dire di questo? Sicuramente balza all’occhio che molti, moltissimi degli autori pubblicati negli scorsi decenni, erano a conti fatti degli insider. Eco, Calvino, Vittorini, ma anche Citati, Arbasino e mille altri appartenevano già a quel mondo, ne erano ispiratori e gerenti, in diverse forme. E colpisce anche l’incredibile forza con cui il marxismo – una certa interpretazione di Marx – e più in generale, “l’essere di sinistra” abbiano conquistato la nostra cultura, fino a rendere inaccettabile la posizione di chi voleva soltanto scrivere, pubblicare, senza per questo tentare di cambiare il mondo. Ancora, emerge in molte pubblicazioni un certo provincialismo, che guarda all’Italietta, e ai suoi gruppuscoli, come l’unico orizzonte possibile. Di qui l’involuzione di una certa “Literatur”, non più rivolta a un pubblico, ma alla creazione di un idioletto fatto apposta per un ceto di intellettuali, fin troppo felici di leggersi e commentarsi fra di loro.
Ho letto e apprezzato questo libro, ma non tanto per il “cosa”, quanto per il “come”. Marchesini non lo conosco, potrebbe essere benissimo un robot, creato da Facebook, ma mi basta leggerne due righe per sentirlo vicino. Ciò che mi colpisce, in lui, è la forza della sua passione, il suo essere-per-la-Letteratura, prima ancora per l’Editoria: una dedizione che non accetta compromessi. In un’epoca in cui recensire significa soprattutto “promuovere”, “strizzare l’occhio”, “stringere contatti” (io parlo bene del tuo, poi tu del mio… ho un libro nel cassetto, chissà che la Casa Editrice X non voglia, in un secondo momento… tenuto conto che io scrivo sempre bene dei loro libri, anche quando mi fanno cagare) lui non si fa problemi a stroncare. Con lo stesso coraggio conosco solo Marco Ciriello, e pochi altri. Casa di carte stava per uscire per Bompiani, un editore importantissimo, che molti di noi – me compreso – possono soltanto sognare. Poi l’inghippo. L’editor, Antonio Franchini, ha preteso che venissero censurate alcune critiche ad autori della Casa Editrice. Se non l’avesse fatto, il libro non sarebbe stato pubblicato. Ora mi chiedo – quanti non avrebbero ceduto? Forse pochi. Marchesini invece ha tenuto duro, ha tirato dritto per la sua strada. Caso più unico che raro, in un paese dove non si contano gli “eroi”, i “ribelli”, quelli che attaccano Putin o Assad su Facebook, per poi cadere in ginocchio davanti a un blogger letterario. E questo conta. È importante – almeno per me. Sarò un ingenuo, per carità, ma non mi sono ancora rassegnato all’idea che scrivere, o meglio, “fare lo scrittore”, sia la stessa cosa che lavorare in banca, o in panetteria, e che vi si debbano applicare le stesse logiche della politica… non mi piace questo gioco dove prima ci si crea un’identità fasulla, da Amico dell’Uomo, si finge di essere un benefattore, e poi ci si creano dei contatti solo per pubblicare, per avere un libro uguale a mille altri, sbiadito e insipido proprio come l’odiato Fabio Volo (a proposito, fidatevi: chiunque sia il suo ghost writer, è comunque più bravo di tanti presunti “artisti”, spacciati per geni). Non apprezzo, leggendo giornali, o blog, che ogni due secondi arrivi alla ribalta il nuovo Philip Roth (peraltro sono anche invidioso), non mi piace che si tirino in ballo parole complicate, barocche, frasi involute per commentare robette da Liala. Io nella Letteratura ci credo. Darei un braccio per pubblicare, per vendere milioni di copie, lo dico senza problemi; ma una cosa è l’Arte e l’altra il Trucco. Si chiamano in due modi diversi, e di questo c’è un motivo. E se c’è qualcuno che può spiegarcelo, quello è Marchesini.
Vi consiglio questo libro anche perché è sottile, arguto, sempre piuttosto autorevole. Uno dei suoi meriti – ce ne sono tanti – è quello di aver dato una giusta dimensione a tre autori che ormai sono diventati dei Miti, dei Geni puramente intoccabili: Gadda, Calvino e Arbasino. Ma se il primo si avvale di un linguaggio oscuro, quasi esoterico, il secondo si è consegnato troppo presto ai suoi giochi letterari – raffinatissimi, certo, eppure anche parecchio sterili; stesso discorso per l’ansia compilatoria di Arbasino, che abusa del suo snobismo per stendere elenchi di nomi, di quadri, di musiche e autori, sempre con l’occhio strizzato alle avanguardie. Ma non è un po’ noioso? Forse sì. Invece si dà il giusto peso al grande Raffaele La Capria, uno dei pochissimi, in Italia, che abbia avuto la forza di confrontarsi con il modernismo joyciano senza sfigurare. La purezza della sua narrazione è acqua benedetta nella nostra palude. Con questo, credo che il libro abbia anche dei difetti. Due in particolare, che lo rendono un po’ sbilanciato: il primo, di cadere nella trappola per cui una storia della Letteratura debba per forza diventare, in ogni caso, una storia dell’Editoria, dei suoi meccanismi; il secondo, di non avere una sua pars construens. La pars destruens la conosciamo benissimo: è quella in cui Marchesini mette in risalto le defaillances dei vari Moresco e Gabriele Frasca. Ma la nostra Letteratura, sia pure con tutti i suoi errori – e sono tanti – ha comunque avuto autori importantissimi, uno su tutti il grande Curzio Malaparte. Ritengo Kaputt un romanzo straordinario, epocale, animato da una febbre visionaria che ha pochi eguali nel mondo; e poi ho amato moltissimo anche Il deserto dei Tartari, Una questione privata e La rovina di Kasch. Tre libri diversissimi di scrittori molto distanti fra loro, e che pure – a mio modesto parere – hanno lasciato un segno. Mi sarebbe piaciuto sentir parlare di loro, piuttosto che di certi avanguardisti da caffè. Detto questo Casa di carte è un libro prezioso. È forse una delle poche (delle ultime?) testimonianze di una passione vera, esclusiva, non ancora contaminata dalla foia di appartenere a quel mondo – l’industria editoriale – che pure nutre i suoi scrittori come la madre il suo bambino. Il cordone ombelicale non può essere spezzato. Ma il bambino ha pur sempre le sue ragioni.
Matteo Farneti
Recensione al libro Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social di Matteo Marchesini, Il Saggiatore, 2019, pagg. 275, euro 23.