Sembra che nelle nostre vite ci sia spazio per tutto, tranne lo stupore. Qualunque cosa sia – ne siamo all’oscuro – l’esistenza ci appare non più come un miracolo, o una scoperta, ma un fatto già visto, che va semplicemente digerito, giorno per giorno, fino al calare del sipario. Allora sì, potremo dirlo – applaudite amici, la commedia è finita! Ma intanto la ruota gira, va ed è sempre uguale – i debiti, il lavoro, le parole, i discorsi, qualche viaggio ogni tanto, poi gli acciacchi, e il senso che la rotta è tracciata, si tratta solo di seguire il vento…
Eppure c’è stato un tempo che non eravamo così. Noi occidentali, uomini e donne economici, eravamo ancora vivi, abbastanza giovani da non credere alla routine, e inseguire ognuno i nostri sogni. Lo studio, l’amore, il lavoro, i giochi e l’amicizia – oggi li chiameremmo “illusioni”. Ci bastava lo spettacolo della neve, per accenderci, la luce di un tramonto, quando ora al massimo gli dedichiamo una foto, da buttare un po’ a casaccio, in mezzo ai social.
E non potrebbe che essere così, come in quella canzone di Battiato – passano gli anni, nascosti dal fatto che c’è sempre qualcosa da fare… ma chi riuscirebbe mai a stupirci? È ancora possibile? E soprattutto – possiamo farne a meno? È una domanda che mi pongo, a volte, quando vivo le mie passioni – il cinema, l’arte, la letteratura – e mi accorgo di incontrare opere anche pregevoli, di ottima fattura, che però non accendono i miei occhi… di nuovo, tutto sembra già vissuto, fatto e creato da tempo. Non per altro esistono i musei.
Luoghi ombrosi e pacificati, che pure, con tanta bellezza, mi ricordano un antico mausoleo, dove riposano gli spiriti di uomini superiori, ora lontanissimi da noi. E di nuovo smettere di pensarci – domani ci si alza presto, c’è da lavorare…
Ma ogni tanto succede. Quando meno te lo aspetti, incontri qualcuno che ti lascia a bocca aperta. Ricordo esattamente quando mi è capitato, l’ultima volta: con il documentario dedicato a Philippe Petit, Man on Wire. Era la storia vera di un funambolo, che un giorno, nel ’74, aveva teso con un arco un filo di acciaio, fra le Torri Gemelle. E dopo, aiutandosi con una sbarra, lo aveva percorso passo a passo, a centinaia di metri d’altezza. Un numero sbalorditivo, che ci avrebbe lasciato un senso di meraviglia, e una vittoria, definitiva, contro il nostro nemico più grande – la paura. Dopo quell’impresa, ero sicuro che non avrei mai incontrato, mai, qualcosa che potesse stargli alla pari. Forse un miracolo della scienza… ma per quello bisogna ancora aspettare.
Poi un giorno è successo: ho aperto YouTube, ed ecco un documentario del National Geographic, Free Solo. Ancora non lo sapevo, ma presto ne sarei stato rapito, al punto da non riuscire a staccarmi, letteralmente, per nessuno dei suoi cento minuti. E di là a comprare il libro il passo sarebbe stato breve. Avevo ancora bisogno di quello stupore, come della più dolce delle droghe. E per una volta non stavo esagerando. Avevo di fronte un altro miracolo. Un ragazzo americano – Alex Honnold, di Sacramento – aveva deciso di tentare l’impossibile. Scalare a mani nude, senza corde, una montagna di quasi mille metri, armato solo di un po’ di talco.
Il suo nemico si chiamava El Capitan. Una montagna dello Yosemite, in California, che nessuno aveva mai attaccato – se non con le corde. A mani nude era semplicemente impensabile. Pura follia. Quel gigantesco blocco di granito, intagliato nel bosco, si slanciava in cielo con pareti quasi lisce, prive di appigli. Lo stesso Alex ci rimuginava da tempo, ma ogni volta si ritirava – era troppo anche per lui. Eppure non era uno qualsiasi: aveva alle spalle una vita singolare, straordinaria, che lo aveva già portato sulle vette del mondo, sempre a mani nude.
Qual era il suo segreto? Nessuno lo sapeva. Ma era uno dei pochi di cui si poteva dire, senza esagerazioni, che era diverso. Questo aggettivo, oggi, forse per bilanciare la mostruosa, inossidabile routine che ci attanaglia, viene concesso con grande generosità un po’ a chiunque. Ma nella maggioranza dei casi – quasi sempre – parliamo di un fenomeno effimero, passeggero, costruito su qualcuno che semplicemente è carino, sa parlare, si è inventato qualche nuovo giocattolo… il che ci riporta sempre in una gabbia, al circuito fama-soldi-consumi, che ormai si confonde con la vita stessa.
Nel caso di Alex invece, la parola è perfettamente giustificata. Il suo modo di essere è tanto distante dal nostro, che qualcuno, d’istinto, può tranquillamente definirlo “pazzo”. E d’altronde cos’è la pazzia, se non un mondo che esula dalla ragione? Davanti a lui infatti non c’è da capire, solo da ammirare. La sua storia è sempre stata differente.
A diciannove anni, dopo aver perso il padre, Alex aveva investito i suoi pochi risparmi – i soldi dell’eredità – nell’acquisto di un camper, con cui avrebbe girato l’America. Per anni si sarebbe accontentato degli stessi vestiti, di dormire nei parcheggi e cenare da solo, con ottantotto centesimi, comprando il cibo nei Walmart. Zero rapporti con le persone, la pura solitudine. Già allora non gli importava di nulla, se non di scalare le montagne. Arrampicarsi per chilometri a mani nude, senza corde, a ogni attimo sfidando la morte.
Era una partita che si giocava nello spazio di centimetri, forse addirittura di millimetri, contro le forze che la Fisica scatenava sull’uomo: peso e gravità, accelerazione e stanchezza, tutte unite per schiantarlo al suolo. Molti dei suoi compagni, nel tempo, avevano ceduto contro un nemico più forte, finendo i loro giorni volando da una cima. L’ultimo era stato lo svizzero Ueli Steck, caduto durante l’ascesa del Nuptse, nel massiccio dell’Everest. Eppure non poteva fermarsi.
Capiva che solo lassù, aggrappato alla roccia, si compiva il senso della sua esistenza, e qualcosa di ancora più importante – la sensazione di essere vivo, fino in fondo. Come tutti gli esseri umani, membri di un’inquieta, fragile specie, sentiva il bisogno di trascendersi, di spingersi un po’ più in là, verso il limite. E non c’era nient’altro, al mondo, che rappresentasse un confine più di El Capitan. Stabiliva i limiti del cielo, che solo un dio poteva sfidare.
Di nuovo quella domanda – c’è un segreto in tutto questo? E se la risposta è affermativa, c’è modo di svelarlo? Secondo sua madre, Alex soffre della Sindrome di Asperger. Una patologia – o forse un dono – che porta a freddezza, mancanza di empatia, autismo e chiusura, ma anche a capacità di concentrazione del tutto eccezionali. Alcuni medici, invece, dopo averlo sottoposto a una Tac, hanno dichiarato che il suo cervello è perfettamente “normale”, tranne in punto – il sistema limbico. In poche parole la sua amigdala – l’organo che nella nostra mente gestisce le emozioni – è totalmente impermeabile alla paura. Alex non la percepisce, se non in maniera molto flebile, smorzata.
La sua forza dunque nasce nel distacco, nella dote, sovrumana, di fissare il pensiero su un unico punto, tralasciando ogni emozione. Non importa se è sospeso a trecento metri da terra, se sbagliando – e basta pochissimo – finirà per morire. Nella sua mente c’è solo una sequenza, prima scritta su un taccuino, e poi ripetuta mille volte, per impararla a memoria: piede a sinistra, perno sul tallone, mano destra dietro la buca, e ancora, dita incrociate, salita, attacco allo spuntone… come scriveva Stephen King, in uno dei suoi magici racconti, non è poi troppo diverso camminare su un tappeto, a venti centimetri da terra, piuttosto che su un cornicione, al decimo piano di un palazzo… ma nessuno ci riesce! Tranne uno come Honnold.
El Capitan era ancora là – solido, grezzo, impenetrabile. Lo aspettava da milioni di anni, come un monolite scagliato da un dio, nei tempi della Preistoria. In quei giorni – forse per la prima volta – Alex aveva mostrato di essere umano, vulnerabile. Aveva tentato di salire, poi, pensando alla troupe, aveva sentito di non essere più solo, e si era fermato. Quel senso di essere osservato, soprattutto dagli amici, aveva incrinato la sua armatura. E la morte di Steck, il volto triste di Sani, la sua fidanzata… ce n’era abbastanza per gettare la spugna. In fondo si era già spinto più in là di chiunque altro, non doveva più dimostrare nulla, se non a se stesso. Ma, come diceva Dostoevskij, chi si spinge verso il confine, supera sempre il limite… e lui doveva provarci. Così sarebbe venuta l’ascensione, come un puntino rosso, piccolissimo, che lentamente saliva per la parete, simile a un ragno… quanto era enorme tutto questo… e quanto era minuscolo il suo corpo… bastava un alito di vento per sfracellarlo al suolo, proprio come era successo ai suoi amici. Ma lui non ci pensava affatto. Nella sua testa c’era solo una sequenza, mano dopo mano, passo dopo passo, e il pensiero di quanto avrebbe amato, quel paesaggio, guardandolo dall’alto. Se non era il Paradiso, di sicuro ci assomigliava moltissimo. E là si spiegavano molte cose, non ultima l’idea che l’uomo non era nato per essere terreno, ma per assaltare il cielo. Solo lassù si compiva il suo destino.
Matteo Farneti
Recensione al libro Nel vuoto. Solo in parete di Alex Honnold con David Roberts, Fabbri Editori, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, 2016, pagg. 262, euro 19.