Dicevano i Romani che la Storia è il più grande racconto mai narrato. Opus Oratorium Maxime. È qualcosa che sovrasta anche il più grande dei romanzi, la più superba delle avventure, perché unisce in sé la varietà dei caratteri, la loro imprevedibilità, alla forza bruta dello smisurato – di ciò che tende all’infinito, e per sua natura non può essere né fermato, né calcolato. Pensate per un attimo alla storia di un imbianchino, un pittore fallito, che un giorno arriva a guidare una Nazione, e attraverso di essa sterminare milioni di uomini, per il semplice fatto che esistono, e sono ebrei: letta in un libro sembrerebbe tanto assurda, e inverosimile, da essere subito derubricata a spazzatura, buona al massimo per un paperback da spiaggia. Neanche un maestro dell’horror, uno come King, potrebbe renderla credibile. E invece… le cose accadono.
Forse è per questo che i miei gusti sono cambiati, e dopo anni di lettura, trovo la narrativa sempre meno appassionante, e mai come i libri di Storia, che invece riservano infinite sorprese, in una galleria di personaggi degna del Prado. Nella Letteratura, purtroppo, sempre più saltano all’occhio – nelle cosiddette “ultime uscite” – opere piuttosto fiacche, scipite, dove è tutto un rimasticare di vecchi concetti, di idee già digerite e sputate da tempo. Scrivere come un continuo ripiegarsi su se stessi, in un guscio dove al massimo c’è spazio per la noia, per un ego ferito che si mette disperatamente in mostra, con le sue ubbie, le sue tristezze, le sue manie, senza ottenere altro che tristi sbadigli.
Nove su dieci c’è qualcuno che si è rotto le corna in città, e alla fine torna al suo paese, dove ha modo di rimuginare sul passato… oppure uno che sembra felice, perché ha il successo – la macchina, la casa, i figli – e invece non lo è, e si innamora della vicina di casa, che però è una un po’ eccentrica, fuori di testa… così diversa dalla moglie, tutta perfettina… allora, se non vi siete già addormentati venite con me, nel loggione.
Laggiù va in scena un altro spettacolo, che continua da millenni, senza mai il sipario, perché ad animarlo non c’è un regista, uno sceneggiatore, ma una combinazione di forze eterne, di potenze inaudite che soffiano come il vento, scatenando tempeste… e a una guerra segue un impero, a una conquista una distruzione, la carestia, il rinascere di una civiltà, fino a che essa non marcisce e ne lascia spazio a un’altra, più forte e veloce, incredibilmente spietata… la ruota potrà mai fermarsi? Nessuno di noi può rispondere a questa domanda.
Quanto a Sergio Marchionne, sono passati due anni dalla sua morte – improvvisa, imprevista, quasi assurda – e ancora oggi si cerca di pesare la sua eredità, di capire qual è stato il suo lascito. Per certi versi, sembra un personaggio di Rashomon: tanto come Jobs, è destinato a suscitare emozioni fortissime – c’è chi lo ama e chi lo odia, chi lo crede un salvatore, altri un pessimo padrone, nemico degli operai – dunque la sua stessa identità è sfuggente, può essere chiunque, a seconda di dove lo si guardi. Come spesso accade ci si divide in opposte fazioni, pronte a fare il tifo per il “loro” Marchionne.
Solo su un punto c’è un accordo di massima: la sua azione è stata fortissima, incisiva, tanto da segnare la Storia non solo d’Italia, ma del mondo intero, attraverso l’industria dell’automobile. Certe vicende sono note a tutti: tempo fa la Fiat, Regno d’Agnelli, era tecnicamente fallita. Scontava anni di inefficienze, di errori e raccomandazioni, un rapporto incestuoso con lo stato italiano (tu mi dai gli incentivi, e io ti apro uno stabilimento che è in realtà uno stipendificio, praticamente inutile), tanto che al suo arrivo, nel 2004, perdeva qualcosa come cinque milioni al giorno. Un bagno di sangue.
Nessuno dei dirigenti (che per la cronaca, erano per il 75 percento nati nella stessa provincia, cioè in quella Asti vignaiola e compagnona, poca adatta alla disruption) sapeva cosa fare. Dopo anni di ossequi, di riunioni, di discorsi felpati in giacca e cravatta, con l’orologio sul polsino per scimmiottare il paròn, si era persa l’attitudine alla lotta. E la situazione era realmente disperata.
Il titolo in Borsa era ai minimi, e si veniva da una girandola di Ceo, di lotte intestine, con i reggenti della famiglia falcidiati da una serie di disgrazie (la morte di Giovannino per una rarissima forma di cancro; il suicidio di Edoardo; la scomparsa di Gianni e Umberto). Nel frattempo si parlava di nazionalizzazione, e l’azienda era di fatto in mano alle banche, che avevano concesso un prestito di tre miliardi in cambio di alcune garanzie, e in particolare lo smantellamento dell’impero (vendita di Fidis, di Toro, di tutte le attività non collegate all’auto) e un pacchetto di obbligazioni convertibili.
Se la Fiat non fosse stata in grado di rimborsarle, le banche sarebbero diventate sue azioniste, e di fatto proprietarie. Mentre Morchio tentava di scalare l’azienda, e si celebravano i funerali di Umberto, l’Italia si svegliava nell’ennesimo brutto sogno: piazzali pieni di macchine invendute, concessionari falliti, stabilimenti chiusi. Centinaia di operai e impiegati in cassa integrazione, in apparenza senza alcun futuro, se non quello di riciclarsi come precari. Sembrava finita e invece… la Storia aveva in mente un’altra sorpresa. Poco tempo prima di morire, il Presidente Umberto Agnelli aveva designato il suo erede. “Se me ne vado, prendete lui”. Si trattava di Sergio Marchionne, Amministratore Delegato di una conglomerata dell’impero, la SGS. Il resto è la storia di questi ultimi quindici anni: sapete come è andata.
Detto onestamente, non avevo gran voglia di leggere questo libro. Prima di comprarlo mi ponevo delle domande. Ma non sarà l’ennesimo omaggio al Re, pieno di ossequi? O peggio, il solito bugiardino fatto di slides, di cifre, di considerazioni – date per scontate – sull’incredibile potenza del mercato, sulle sue geometrie ineffabili e ormai vittoriose? O un barocco, zuccheroso sfoggio di Retorica, forse degna di miglior causa, e qui cosparsa come un profumo sulle vestigia della Real Casa, nel puro stile di un Cazzullo, un Severgnini, un Gramellini o una Beria d’Argentine? Il rischio, dato i precedenti, era alto.
In molti libri sulla Fiat – quasi tutti, a dire il vero – mi era stato difficile sentire nominare, anche solo una volta, la parola “auto”, mentre si finiva annegati da un diluvio di vicende nobiliari, con protagonista Gianni Agnelli: il nonno, il fascismo, la dolce vita, le corse in macchina, la Ferrari, l’incidente, la Ekberg e l’attrice, l’elicottero, Forte dei Marmi, le telefonate alle sei del mattino, la Juve e Gheddafi, la Stampa e Montezemolo, in un unico nastro laccato d’oro, che proseguiva per chilometri fino a lambire, anzi, superare Liala, e così farsi Romanzo Rosa (d’altronde si sa – la serva è ladra, la padrona è cleptomane…)… ma Ebhardt no, è di un’altra pasta.
Non solo è uno dei pochissimi – forse l’unico? – a conoscere tanto Bugo come l’economia, la parola “turnaround” quanto Le Luci della Centrale Elettrica. Non finge di essere giovane, non gioca la parte nello stile di un Renzi, lo è veramente, nell’unico senso in cui ciò è possibile, ovvero in favore di una certa freschezza, un’anima, una brillantezza interiore, che per qualcuno può resistere anche a cent’anni, come Gillo Dorfles, e per altri non arrivare mai. Da qui l’assoluta intensità con cui conduce il suo gioco, che è quello di ritrarre Marchionne in presa diretta, attraverso incontri, interviste, scampoli off the record, per narrare la sua vicenda umana e professionale negli anni alla Fiat, fra le due sponde dell’Atlantico.
Dunque la domanda è: chi è Marchionne? Chi è stato realmente? Nessuno, nemmeno Ebhardt, ha in mano la Verità, ma qui di sicuro ci si avvicina meravigliosamente, in un ritratto che ha la profondità di un Maestro. La prima cosa che salta all’occhio è che Marchionne non è stato, mai, un predestinato. A differenza di moltissimi Ceo – soprattutto quelli che spadroneggiano in Italia – non è nato nella bambagia, ma nella famiglia di un carabiniere abruzzese, Concezio, che un giorno si è trasferito in Canada, per dare un futuro migliore ai suoi figli.
La sorella di Sergio, Luciana, avrebbe dimostrato un’intelligenza e una cultura senza pari, tanto da arrivare, a soli ventisei anni, a insegnare Lettere Antiche in una delle migliori università del paese; poi una crudele malattia, che avrebbe finito per uccidere quel fiore quand’era ancora in boccio, nei suoi anni migliori. Quanto a Sergio, la sua sarebbe stata una scalata difficilissima, fatta di talento, intelligenza, capacità numerica e calcolo, memoria d’acciaio, ma soprattutto di applicazione, sangue, fatica, duro lavoro per almeno settanta, ottanta ore la settimana – sempre se c’era poco da fare… a un signor nessuno nessuno regalava niente, tantomeno i soldi.
Se avesse voluto qualcosa, nella vita, avrebbe dovuto sudarsela, e lui era il primo a saperlo. Ma aveva ricevuto un dono, che era qualcosa in più del talento – una mostruosa, incrollabile Volontà, capace di accettare i sacrifici più duri, in nome del successo. Una chimica che era la stessa dell’acciaio, e lo avrebbe portato, nel corso del tempo, a scalare tutti i gradini della società, fino alla guida di Fca. Laurea in Filosofia, Laurea in Legge, la Deloitte, Alusuisse, Sgs, da impiegato a contabile, da Cfo a Ceo, quindi la definitiva consacrazione – capo assoluto di Fiat, con una missione quasi impossibile, cioè prendere un’azienda in bancarotta, e salvarne la pelle. Ma lui d’altronde lo diceva – I’m fixer. Metto a posto le cose. E così sarebbe stato, ancora una volta.
Dalla guida di Fiat, in quel lontanissimo 2004 – sembra passato un secolo, è in realtà appena ieri – nasce una seconda storia, in cui lo stesso Marchionne cambia faccia più volte. Ebhardt è bravissimo a cogliere la sua trasformazione – reale o percepita che sia. All’inizio SM è il “borghese buono”, nella lampante definizione di Fausto Bertinotti (uno che nella vita ha avuto poco tempo per lavorare, ma a cui, di sicuro, il genio per le parole non è mai mancato), un uomo amato e rispettato dagli operai, e dunque dai sindacati, dalla sinistra, dai suoi intellettuali e opinion leaders, che vedono in lui il salvatore di centinaia, migliaia di posti di lavoro. Il Ceo non si limita a promesse, agisce con la forza di un turbine, per rimettere a posto mense e stabilimenti, uffici e impianti, ormai ridotti malissimo. Licenzia decine di dirigenti incapaci, pianifica investimenti, concepisce nuove linee e prodotti: è la rinascita, prima impensabile, ora semplice realtà. Ma poi il giocattolo si rompe.
Dopo la luna di miele, viene fuori la realtà di molti matrimoni: si è in due, e per andare avanti si devono fare dei sacrifici. Marchionne ne chiede tanti, tantissimi. Non si risparmia, lavora come un pazzo (in dieci anni, mai un giorno di ferie) fino a sacrificare la famiglia, persino i figli, ma pretende altrettanto dai suoi dipendenti. Il dissenso non è contemplato. Il fallimento non è un’opzione. Non si può accettare una vita mediocre. Perciò se si vuole mantenere la produzione in Italia – a Pomigliano come a Mirafiori – bisogna accettare un nuovo contratto, dove certi diritti degli operai sono semplicemente cancellati.
Se non vi sta bene, le macchine si faranno da qualche altra parte: prendere o lasciare. In America, dopo la fusione con Chrysler – un autentico miracolo, che costituisce il capolavoro della sua carriera – i lavoratori degli impianti si sono piegati a sacrifici enormi, pur di ripartire. Eppure là Marchionne è visto come un eroe, un salvatore della Patria, perché ha permesso a FCA di salvarsi. Insomma, senza di lui sarebbe stato molto peggio.
Qui invece la pensano diversamente. Non solo gli operai, la Fiom, una parte consistente dei media e dell’opinione pubblica, ma persino Confindustria – che nel frattempo la Fiat ha lasciato, con uno strappo fortissimo – hanno cambiato opinione su di lui. Ora Marchionne è un avversario, un nemico, un uomo avido e insensato, che vuole riportare gli operai indietro di decenni, ai tempi dei “reparti-confino”, dove i dissidenti venivano mandati a marcire, con uno stipendio da fame. Si arriva al referendum, il risultato è in chiaroscuro, proprio come l’Italia di questi anni: FCA ha vinto, ma con il voto decisivo degli impiegati. In molti reparti gli operai hanno detto no. E per loro la lotta è appena incominciata.
Ed eccoci arrivati all’ultimo Marchionne. L’uomo è perfettamente in sintonia con i tempi, che sono digitali, velocissimi, forse incomprensibili, e sempre del tutto insaziabili. Anche il più grande degli obiettivi – costruire il sesto gruppo mondiale, con miliardi di utili – non vale in fondo granché, se comparato a ciò che potrebbe essere.
SM non si accontenta mai, vuole essere il numero uno; e per diventarlo c’è un’unica strada da percorrere – quella di comprare General Motors, con un’Opa ostile, e costruire il più grande gruppo automobilistico al mondo. Per farlo servono almeno sessanta miliardi di dollari, e una volontà feroce, capace di scontrarsi persino con i poteri forti degli Usa, a cominciare dal Presidente Trump. Un merger del genere assomiglia quasi a una follia, anche se può garantire risparmi enormi, e una produzione superiore ai dieci milioni di autoveicoli l’anno. Questa volta, dietro le dichiarazioni di facciata, nemmeno i suoi collaboratori più stretti sono con lui.
Si comincia a pensare che Marchionne abbia esagerato; che da genio visionario, si sia tramutato in una specie di conquistatore, ebbro di potere, con scarso senso della realtà. Certi suoi atteggiamenti – qualcuno arriva addirittura a dire che si sta comportando “da bestia” – sembrano indice di una pura volontà di potenza, ormai priva di freni. Forse uno stress così prolungato, condito da miriadi di caffè, sigarette, notti insonni, unite all’idea che il tempo sta passando inesorabile, ha finito per minare la sua mente. Il rigore dei calcoli ha lasciato spazio all’ebbrezza del successo. Così, in questa caduta, arriva una sonora sconfitta per il Ceo, che è costretto a mollare. La General Motors di Mary Barra non sarà mai sua. Di qui forse, da un senso di ressentiment, si possono ricostruire altre sue mosse, dettate dall’ansia di rifarsi in fretta.
SM arriva a scontrarsi con Montezemolo, lo elimina: apparentemente il casus belli è la Formula Uno, dove la Ferrari non vince da anni, ma in realtà è la voglia di aumentare la produzione, per estrarre ancora più valore, e quotarla in Borsa. Il Presidente non è d’accordo, per lui il Cavallino deve restare un marchio di nicchia, con un massimo di settemila vetture l’anno; ma alla fine è costretto a cedere. Marchionne si intesta un’altra corona, per approdare a Wall Street, e continuare a correre. Ma lui per primo, ormai, sa che il suo tempo in FCA sta per scadere. Ancora pochi mesi e dovrà andarsene.
E in questo “dover andare”, purtroppo, si nasconde la fine della storia. Presto tali parole assumono un senso del tutto diverso, e ahimè ben più tragico. A pochi mesi dal termine del suo mandato, nel 2018, Marchionne è ricoverato d’urgenza, per un’operazione apparentemente di routine. In realtà è malato da tempo. Nessuno è al corrente della malattia, nemmeno i suoi familiari più stretti.
Forse confida nella sua tempra d’acciaio, forgiata da anni di sacrifici, per uscire intatto dall’ennesima sfida; invece non sarà così. Il Tempo è qui per esigere il suo ultimo tributo – che vale una vita. Con la sua morte, come sempre succede per i grand’uomini, e in generale, per tutti quelli che si possono definire “personaggi storici”, il ricordo della persona si mischia al lascito, a ciò che rimane della sua missione.
Eppure sono in pochi a coglierne il senso. In Italia, al di là delle solite celebrazioni, delle spruzzatine di incenso, delle parole retoriche e vuote, e dei silenzi imbarazzati di chi lo odiava, quasi nessuno si interroga sull’operato di Marchionne – se la sua strada va percorsa, e in che modo, oppure rifiutata in toto.
Egli parlava di merito, competizione, innovazione, di corsa e lotta, di nessun rispetto per la forma, neppure con i media; di individuo e coraggio, di voglia di cambiare, ma anche di rabbia e avidità, con un completo distacco da quelle cose, come lo svago, l’arte, l’amore, che per molti rendono la vita degna di essere vissuta. Aveva torto o ragione? Era un pazzo oppure un genio? Un individuo singolare, o il prototipo di una nuova forma umana, proiettata nel terzo millennio? Ancora una volta non ci sono risposte. O meglio – ognuno ha la sua.
Ma se si vuole che sia ponderata, e di un qualche valore, non credo si possa prescindere da questo libro. Il Sergio Marchionne di Ebhardt è una grande narrazione storica, virata nel tempo di oggi – quindi veloce, digitale, in presa diretta. Un racconto di un uomo che, in qualche modo, ha impersonato una storia che noi tutti abbiamo vissuto. La fine di un’Italia novecentesca, la nascita di un mondo completamente nuovo. Dove stiamo andando? Nessuno in fondo lo sa, ma non possiamo rinunciare a costruirci una mappa. E qui c’è una bussola preziosa. Non rinunciateci.
Matteo Farneti
Recensione al libro Sergio Marchionne di Tommaso Ebhardt, Sperling & Kupfer, 2019, pagg. 278, euro 17,90.