Caterina Zamboni Russia, autrice con Massimo Zamboni del libro La macchia mongolica pubblicato con Baldini+Castoldi, regala a Satisfiction un racconto inedito ambientato negli hutong di Pechino, i vicoli formati da file di siheyuan, le tradizionali abitazioni a corte. Vi si mescolano suoni, colori, odori, a disegnare un suggestivo scenario alimentato dal ricordo vivo di un viaggio fatto dall’autrice nella grande capitale della Cina, la città più estesa del mondo per superficie con tre millenni di storia. Pare quasi di sentirlo il profumo del tè al gelsomino e gli odori della cucina locale che si sprigionano lungo i vicoli percorsi da Caterina, e ancora il frinire dei grilli che non si stancano mai di raccontare la pioggia, i risciò, la storia e la cultura cinesi. Si tratta di un racconto dove l’atmosfera del viaggio è tanto viva da poterla toccare, quel viaggio che non è mai solo un andare da qui a là, piuttosto un (com)muoversi dell’anima che apprende e si evolve in ogni luogo in cui si trova a passare. A vivere. A scrivere. Così lo sguardo offerto da Caterina Zamboni si rinnova continuamente in questo meraviglioso inedito, nell’osservazione del dettaglio che assume i contorni di nuova scoperta dove si palesano forme che sanno di poesia. Nell’attesa paziente di un gesto o un suono unico e irripetibile, che solo la letteratura sa cogliere nella profonda essenza, Caterina Zamboni con una scrittura evocativa mossa da un soffio di delicata nostalgia, porta il lettore a innamorarsi di luoghi lontani, attraverso le stradine nascoste di una metropoli di tradizioni antichissime attraverso parole in cammino che ci rivelano la magia dell’ascolto.
Silvia Castellani
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Oggi piove tra gli hutong. I grilli nelle gabbiette non cessano di parlare, raccontano la pioggia, i risciò, descrivono chi cucina per strada sotto pergolati che si allungano fino ai tetti. La Grande Massa che per sua abitudine cammina disordinata, e urla e spinge, oggi rimane inumidita in angoli nascosti al mio sguardo. È la trama collettiva dei corpi fissi ad aver privato il luogo del suo movimento: le zucche rampicanti intrecciano i loro fili attorno ad ampolle di pesci rossi – i frutti simili a borracce appese – fino a raggiungere grovigli di cavi elettrici che anneriscono il cielo per la loro densità. Una lanterna, una bicicletta dal seggiolino sfondato. Quell’esuberanza verde le avvolgerà con metodica lentezza, quasi le dita della zucca accompagnassero le cose alla fissità, attorcigliandole nei tempi immutabili. Centinaia di libellule affollano il cielo sopra gli hutong: evanescenze del colore di una ciotola di tè al gelsomino volano sole, soffermandosi a un tratto a mezz’aria come per osservare qualcosa. È il volo dello spirito santo, così chiamato per la sua capacità di tracciare vaga una sacralità: sottili nel contemplare, come una presenza appena avvertita.
L’hutong che mi ospita è una stradina dalla pavimentazione fangosa su cui si affacciano abitazioni in mattone grigio e tetti rossi. Vengono prodotti qui, i mattoni, accanto a un venditore di pesche mature nell’angolo della strada. Tre uomini accaldati siedono in fila dietro ad altrettante vasche colme di acqua grigia, lavando blocchi di argilla che verranno asciugati al sole. Intuisco che il resto della produzione avvenga sul retro, in quegli stessi angoli in cui oggi la Grande Massa si rintana. Con spazzole di giunco ne levigano la superfice grezza e li passano all’uomo seduto alla propria destra, che ripeterà il gesto nel vapore generale. Un ragazzo dalla maglietta bianca li espone su graticci, mentre tre quattro persone rimangono ferme ad osservarne l’essiccazione, commentandola nel suo fiacco progredire.
Ho battezzato questo luogo Quartiere degli artisti. Pennelli, carta di riso dalle varie sfumature e della stessa evanescenza del corpo di quelle libellule, del tè – ma forse è proprio questo stesso luogo a presentarsi evanescente. Libri di pittura di fiori, uccelli, monaci su giunche cinesi, tazzine e porcellane: ogni cosa si interseca con una quotidianità di strada, con il fumo dei ristoranti, i bucati appesi, il canto dei grilli, anch’essi inumiditi dalla città. Artisti, quelli che possiedono il quartiere, perché capaci di un’arte particolare, al di là di quella tracciata dal pennello con inchiostro nero e rosso. Una scritta la vuole rivelare, imponendosi ai miei occhi – forse per la familiarità a una lingua che qui appare essere dimenticata: la vita è il piacere del luogo giusto in cui soffermarsi.
Artisti dovunque. Quattro anziane siedono ad agitare il ventaglio, commentando chi passa e chi passava e i miei capelli, troppo riccioli per adattarsi ai luoghi; la cuoca – riconoscendomi per le mie ripetute frequentazioni mi sta offrendo oggi, prima volta, il tè al gelsomino – sembra valutare uno ad uno i petali dei fiori che cadono verticali sul fondo della tazza, raggiungendo in congiunzione foglie di tè dal sapore bollente. Una solidità indolente accompagna le mie giornate nell’hutong: ricalco con lo sguardo le forme di un uomo che dorme all’ombra di una tettoia con la pancia scoperta e una mano sopra appoggiata, mentre l’altro, suo amico, dipinge. Un’asse dà l’apparenza di un tavolo a due cassette di plastica rovesciate, attorno a cui cinque uomini levigano noci acerbe eliminandone il mallo: all’interno un guscio, la cui contorsione superficiale verrà studiata e ancora studiata, appaiandola ad un’altra sua simile. Interrogheranno quel guscio per giornate, conferendogli una incomparabile rarità lignea: a ripagare gli uomini, la simmetria delle sue venature. Gli hutong sono attesa. Un’attesa crescente in cui ammaestrare gazze dalle piume blu a volare da un braccio all’altro, in cui si cucinano ravioli e si gioca a domino circondati da vicini con le mani sui fianchi o unite sulla schiena, il capo abbassato dall’abitudine di osservare. Non si chieda cosa, chi si attende. Non si dica che gli hutong scompariranno presto nel cemento generalizzante. Si dica solo ciò che si ammira: una capacità innata di contemplazione. Perché chiunque desidera pregare, accompagnato nel proprio dialogare autonomo dal richiamo di un merlo, di un grillo, di una cocorita.
La Vita è il piacere del luogo giusto in cui soffermarsi.
Caterina Zamboni Russia
Pechino, 2018