Dopo A misura d’uomo (Vincitore del Premio Procida e del Premio POP e tradotto in Spagna e in Olanda), Roberto Camurri torna – dopo due anni – con un nuovo romanzo Il nome della madre un ritratto intimo e familiare sulla solitudine di un padre e di un figlio abbandonati dalla protagonista velata del romanzo: una moglie per poco e una madre appena conosciuta. La donna esce dalla vita dei due senza dare spiegazioni, senza nemmeno salutare. Lascia il marito Ettore – un uomo solitario, di poche parole – a crescere il figlio Pietro con cui dovrà parlare, giocare, a cui dovrà spiegare il mondo. Il loro è un rapporto di silenzi sul quale aleggia un’assenza che diventa negli anni una presenza quasi ossessiva.
“Gli manca lei, il suo essere sempre così radicale, il non avere mai dubbi, gli manca averla per casa, sentirla ridere, quelle poche volte che si lasciava andare era bellissimo, pensa. Gli mancano le sue mani, il suo pulire la casa alle sette della domenica mattina, gli manca essere svegliato dal suono dell’aspirapolvere, sentirla cantare sotto la doccia.”
Pietro diventa uomo fumando troppe sigarette, rimanendo perennemente inquieto, identificandosi con il suo cane Briciola – anche lui allontanato dalla madre – e innamorandosi di Miriam con cui conviverà in una città lontano dal suo paese.
Roberto Camurri descrive più di vent’anni di vita di Ettore e Pietro attraverso alcune scene di vita quotidiana, ricostruisce i conflitti e gli equilibri, le dinamiche e, soprattutto, i sentimenti contrastanti che provano tra loro, come le emozioni espresse a fatica da parte di Pietro adolescente o la difficoltà di un padre che prova a crescere un figlio dagli occhi così simili a quelli della madre da farlo stare male.
L’autore racconta una storia diversa – per certi versi opposta – da quella del suo esordio A misura d’uomo dove in quel caso erano le figure femminili quelle che rimanevano e gli uomini che sparivano. L’elemento di congiunzione dei due romanzi è sicuramente Fabbrico – il comune reggiano di seimila persone – con il bar della Bice, la strega del paese e le quattro strade diritte e lunghe che tagliano la campagna. Ogni parola dell’autore porta con sé senso di appartenenza e rispetto, fascino e inquietudine.
“Fabbrico è più bella del solito, lo sono i colori delle case, quelli del cielo sopra le loro teste, l’asfalto che luccica di una luce diversa, a Pietro viene in mente suo nonno che gli dice che è in giornate come quelle che arriva il terremoto.”
«La cosa più importante per scrivere questo secondo romanzo è stato non mettermi al centro della storia», racconta Roberto Camurri durante un intervista in streaming con Luca Pantarotto della NN Edizione. «Avevo bisogno spostarmi in un angolo e guardare i personaggi dall’estero, quando ci sono riuscito tutto è stato più semplice». In queste frasi, l’autore descrive il suo stile: la capacità di non scrivere quello che sa, ma quello che vede. Stimolando il lettore a osservare, capire i gesti, interpretare le azioni, e scoprire lentamente i personaggi. Questo stile aiuta anche a dare imprevedibilità alla storia, perché il lettore non è sommerso da infiniti flussi di coscienza – così di moda nella letteratura italiana – che rendono la trama scontata e banale.
La scrittura di Il nome della madre è asciutta e descrittiva, intensa e senza pregiudizi, capace di raccontare l’intimità e quotidianità della vita di provincia attraverso i suoi contrasti, le bevute, la voglia di scappare via e il silenzio. Roberto Camurri ha la capacità di costruire personaggi fragili e insicuri, sempre sull’orlo di una crisi di pianto o di una rivoluzione personale.
Michele Crescenzo
Recensione al libro Il nome della madre di Roberto Camurri, NN Editore, 2020, pagg 176, euro 17.