Aveva la rara capacità di trasformare un vestito in un pezzo di stoffa, una tazza di latte in yogurt e un discorso in una lite.
“Prima che qualcosa vada storto, è meglio trovare un senso alle cose brutte che potrebbero capitarti, anche quando ti dovessero sembrare belle!” diceva a suo marito.
“Io oggi non ho fatto proprio niente!” la rassicurava.
“Lo stesso niente di ieri?” domandava lei mentre impastava patate e farina.
“Ieri non avevo finito…” rideva lui.
La Signora Marta Tamburo era una casalinga quasi perfetta: puliva la casa seguendo un piano settimanale, lavava ogni capo con un’attenzione maniacale e lo stirava perfettamente, accudiva suo marito in ogni faccenda che comportasse un minimo di abilità, faceva l’amore una volta al mese spogliandosi anche in inverno e, oltre che per gli gnocchi, eccelleva in cucina per l’orata al cartoccio.
Il Signor Benito Tamburo, per quanto con discrezione, era un “grande invalido”. Non lavorava da anni e si aiutava, nelle quotidiane passeggiate, con un bastone. Ogni giorno sua moglie lo detergeva “a pezzi”, gli faceva la barba, gli spuntava le unghie, lo pettinava, lo vestiva, gli caricava la pipa e gli allacciava le scarpe: per premura, non per necessità.
Stante la totale assenza di vitalità del Signor Benito, nel quartiere, la famiglia Tamburo era conosciuta come: Marta e il Morto, ma ben presto lei conquistò un soprannome tutto suo.
Una sera, con l’affabilità di due nonni acquisiti, mi ospitarono a cena.
Avevo circa otto anni, la simpatia di un coccodrillo e i vizi di un normale bambino degli anni Settanta. I miei genitori mi affidarono a quella coppia di vicini di casa con estrema fiducia e rara disinvoltura, ma un serio e inderogabile impegno (che non ricordo) fu il vero motivo.
Della cena/merenda rammento solo le spine del pesce, un pezzo di carta da forno ingerito e le mele cotte… Finimmo di mangiare alle sei di sera, per avere il tempo di scendere con calma verso il cinema parrocchiale La Buona Novella e vedere la versione integrale di Via col Vento che iniziava alle sette.
Per tutto il film, il Signor Benito non tolse mai le mani dal bastone che usava come appoggio anche per la testa; la Signora Marta pianse molto, ben oltre due fazzoletti in cotone gessato con le sue iniziali ricamate a mano.
Terminato il film, era tardi, ma l’estate e le vacanze scolastiche allungavano le giornate dei bambini di Palmaro che, nelle piazzette illuminate a giorno, ancora giocavano a strega comanda colore.
“Certo che quella Rossella era proprio una leggera!” disse la Signora Marta, tenendomi per mano.
“Diciamo che non si è fatta tanti scrupoli. Però… una bella donna!” concordò il Signor Benito, zoppicando nel passo e nella sillabazione.
“Cosa vorresti dire? Adesso basta essere belle per fare quel che si vuole?”
“No, certo che no! Hai ragione Marta, era una poco di buono.”
“Ma a te piace una così?”
“Non credo…”
“Ah bene! Non credi… Cosa c’è da credere? O è sì o è no.”
“Allora no, Marta.”
“Sei il solito sporcaccione! Domani te le pulisci da solo le scarpe.”
“Signora Marta…” chiesi tra uno strattone e l’altro, “Perché gli schiavi parlano così?”
“Perché sono negri!” rispose per primo il Signor Benito.
“Sì, perché sono negri e hanno le labbra grosse.” Specificò la Signora Marta.
Quando in autunno si fecero le caldarroste in piazza, nessuno mise in dubbio che dovesse essere la Signora Marta a occuparsi dell’incisione delle castagne… Tuttavia, per indole e perizia, lei si propose anche di cuocerle, gestendo a mani nude sino a cinque padelle forate e arroventate dalla brace.
Senza bruciarsi, la Signora Marta afferrava i manici di ferro con la facilità con cui un demone infernale si lasciasse consumare un fiammifero tra le dita.
Quel giorno, grazie alle sue doti di cuoca e alla iniziativa del parroco, la Signora Marta si meritò un nuovo nome:
“Cari tutti…” disse Don Uberto prima del vino e delle castagne, “Dobbiamo benedire la nostra Marta che ci ha preparato le caldarroste. Marta, fatti abbracciare, avvicinati… Sei una benedizione! A nome di tutti: sei la nostra Mami preferita.”
Il Signor Benito si commosse, lo vidi barcollare sulla sedia di paglia, tanto che gli cadde il mento, subito dopo il bastone.
Quando toccò alla Signora Marta ringraziare il prete, in molti già stavano soffiandosi le dita, masticando via il calore anche dalla bocca:
“Grazie a voi tutti… Per me è un onore poter aiutare Don Uberto e rendervi felici. Siamo una bella comunità, e sono felice di poterne essere parte. Mi piace pensarmi utile come un foglio di carta stagnola. Ecco, buon appetito e buona festa!”
La sua resistenza al fuoco non servì a renderla immortale. E, se devo essere sincero, nessuno si ricordava più di Mami e delle sue castagne dopo soli due anni dalla sua scomparsa.
C’era un fuoco nuovo che divorava la gente del quartiere, un fuoco che stranamente tutti sapevano accendere e nessuno domare: era mai possibile che Don Uberto fosse un finocchio?
Angelo Orazio Pregoni