C’è un napoletano, un milanese e un Genovese…
Sembra una barzelletta e, considerando la storia di Michele Mozzati, il suo lavoro insieme a Gino Vignali, sarebbe anche plausibile se non fosse che qui, in questo Quel blu di Genova edito da La Nave di Teseo e da domani 19 giugno in tutte le librerie, uno dei componenti del trio è una donna, si parla d’amore, di sogni e di patria e, queste, sono cose con cui non si scherza.
La vicenda comincia in una casa, in America, più precisamente in cima al quartiere di Castro, a San Francisco.
Questa è la casa degli Esposito Giudici Sommariva, che custodisce una storia di centocinquant’anni, dove tre destini s’intrecciano nella lotta, nella salvezza e nel viaggio, generando una stirpe di figli unici maschi e italoamericani.
La casa di Castro è dove tutti sono cresciuti e che conserva la loro anima – li ha contenuti – prima che decidessero di tornare in Italia a ricercare fortuna.
Pietro, probabilmente l’ultimo discendente della famiglia, torna in America obbedendo alla volontà del padre sul letto di morte. Metterà la casa in vendita, ma conserverà due diari.
Dentro ci trova, talvolta anche in maniera illustrata, la storia della sua famiglia e soprattutto le ragioni di quel cognome tanto lungo che sembra voler contenere disperatamente tutto come un abbraccio che se non si scioglie, non ci sarà l’addio.
A questo punto, la sua storia diventa anche la nostra perché si parla di Risorgimento, e più precisamente della rivolta milanese del 6 febbraio 1853. La battaglia più piccola, scalcagnata, del tutto dimenticata. Un tassello, un’azione di gioco dentro una partita intera dall’esito, in quel momento, del tutto sfavorevole per gli italiani.
Eppure è dentro le piccole battaglie che troviamo il grande vuoto, lo spreco evidente della gioventù che s’immola.
Questa è la storia di una rivolta che quando fu davvero libera, convinta, esuberante, fu un disastro.
Combattuta da artigiani e contadini armati di utensili da lavoro, senza organizzazione, che provarono a liberarsi dall’invasore con la sola forza del loro coraggio.
Non useremo la parola “eroi”, non la useremo in questo contesto e non la useremo mai.
Eroe è un vocabolo spaventoso, fatto di poche lettere e troppo dolore.
Eroe, patria, onore, sono fonemi talmente evocativi da risultare menzogneri.
Useremo piuttosto il termine sognatori, perché meglio si addice ai ragazzi. Questo erano Ernesto Giudici borghese di Milano, Cesco Esposito, panettiere napoletano che voleva esportare la pizza e Maria Celeste Sommariva, la genovese che tutti chiamano Cielo. Questo erano nel 1853 mentre scappano dalle ingiustizie di un paese occupato che avrebbero voluto liberare, che sognavano più giusto e che diventerà Italia – nazione e regno – ma giusto davvero, mai.
Pierangelo Consoli
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Di seguito un estratto in esclusiva da Quel blu di Genova di Michele Mozzati, dal 19 giugno nelle librerie.
Quanta vita c’è dentro queste poche righe che raccontano, come dei fermo immagine, una città, un angolo di storia anche troppo dimenticata. Ci sono i grandi ideali dei grandi pensatori pieni di grandi futuri immaginati. Davvero bella gente, spesso celebrata come padri della patria, condottieri eroici o teorici inarrivabili. Ma questi uomini importanti della nostra storia pensavano forse troppo, a volte, e avevano una certa resistenza a misurarsi con la quotidianità. Così a farsi ammazzare, magari anche perché le loro vite erano state affidate a operazioni azzardate, alla fine erano i poveracci. I garzoni, i costruttori di pianoforti, i decoratori dei begli appartamenti del centro. Il dramma delle crescite importanti della storia dell’umanità sono stati gli scollamenti tra chi pensava e pensava di saper organizzare e chi ci credeva a prescindere, chi d’acchito si faceva buttare nella mischia per ideali o per necessità di sopravvivenza. È sempre stato difficile mettere insieme gente che in sostanza non si è mai frequentata né conosciuta bene. Appartenevano a classi diverse. Gli uni a programmare imprese, gli altri a farle sulla propria pelle. Non furono moltissime le vittime di questa rivolta senza domani. A parte un numero non ufficiale di morti nell’esercito austriaco, qualche decina di patrioti vennero giustiziati per impiccagione o per fucilazione. Altri morirono per le strade. Ottocentonovantacinque vennero arrestati, molti dei quali furono esiliati e addirittura, come succede nei momenti di maggiore reazione del potere, qualche migliaio di lavoratori della Svizzera italiana di stanza a Milano, osti, lattai, camerieri, bottegai, spazzacamini, carbonai, stallieri, muratori – gli stranieri – vennero rimpatriati dal governo austriaco, perché considerati pericolosi. Gli svizzeri.
La rivolta milanese del 6 febbraio del 1853 è la meno celebrata e ricordata del Risorgimento italiano. Solo apparente- mente non se ne capisce il motivo. A pensarci bene fu la sconfitta della teoria slegata dalla realtà, e la definitiva conferma che il potere, in questo caso soprattutto la borghesia, anche quando propone alleanze, in cerca di nuovi mercati e di una credibilità socioeconomica, ha sempre come primo nemico i più deboli. I ricchi hanno paura dei poveri, per prima cosa. E poi di tutto il resto.
Eppure ci sono delle figure belle di eroi, in queste vicende, così forti da diventare quasi leggenda. La storia della città, la si trova anche sui libri di scuola, parla di un tappezziere, Antonio o Amatore Sciesa che due anni prima, nel 1851, viene sorpreso, sotto la pioggia battente, in Corsia della Lupa, vicino a una serie di manifesti anti-austriaci che invitano alla rivolta, ancora freschi di colla. Addosso a Sciesa vengono rinvenute le pro- ve schiaccianti del suo operato. Sarà certamente condannato a morte. Ma Radetzky gli offre, non si sa se sarebbe stata man- tenuta la parola, di liberarlo se dirà i nomi dei suoi mandanti. Amatore Sciesa viene portato prima dell’esecuzione sotto le finestre di casa sua a cui sono obbligati ad affacciarsi moglie e figli. Poi viene fatto camminare di fronte alle case di quelli che vengono ritenuti, probabilmente a ragione, gli organizzatori di quella propaganda di libertà. Amatore Sciesa deve solo fare un cenno con la testa per condannarli. Non fa cenni, ma dice: “Tiremm innanz”, andiamo avanti, frase che a Milano significa ancora qualcosa.
Viene fucilato dopo qualche giorno al Castello, poiché non si trova un boia disposto a impiccarlo.
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18 giugno 2020