In mezzo alla volgarità del quotidiano talvolta arrivano dei ricordi che illudono e rimettono in gioco un sentire comune e una catena di conseguenze; oggi per dire mi è tornata alla mente questa foto, vado a memoria, ricordo il tavolo nella casa/studio di Alberto Abruzzese da dove l’ho postata, erano i primi mesi del 2014 o la fine del 2013.
Questa è una performance che va avanti dal 1995 si intitola The Maybe di Cornelia Parker e Tilda Swinton ed ebbe destino di accadere alla Serpentine Gallery di Londra. Tilda Swinton vent’anni dopo al MoMa volle ridarle notorietà. Ma qui viene il bello, Federico Ferrari vede la foto su fb e mi scrive che undici anni prima aveva scritto a Tilda Swinton una lettera – che poi era anch’essa una performance che ebbe destino di accadere a Lione nel 2003 – e me la manda; bene, è una lettera talmente bella che per un periodo della mia vita che credevo triste, non conoscevo ancora il volto della tristezza, la leggevo almeno una volta alla settimana e quando incontravo qualche persona interessante per la mia ricerca le mandavo la lettera di Federico, che ora metto qui per chissà chi e per mia figlia Alice
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Ricordanza. Una lettera a Tilda Swinton
Milano, 4 novembre 2003
Cara Tilda,
mi è stato chiesto nel giugno scorso di intervenire su “l’idea di comunità” nell’arte contemporanea. E’ un soggetto sul quale ho già scritto diverse volte. Non ho più una gran voglia di ritornarci, di ripetere sempre lo stesso refrain. Ma è come se non potessi impedire l’arrivo di questo ritorno impercettibile: il comune. E’ come se il comune ritornasse da solo in ogni pensiero, in ogni parola, in ogni sguardo.
Nel mese di agosto, a Montemarcello, un paesino vicino al mare sulla costa ligure, non ho smesso di leggere e rileggere le Tesi della filosofia della storia di Walter Benjamin, e mi sono accorto che il problema della comunità nell’arte attiene alla questione del ricordo o di quella che Benjamin chiama la souvenance. Souvenance: utilizza questa parola curiosa per tradurre il tedesco Eingedenken. In italiano ci si potrebbe servire della parola “ricordanza”, che era così cara a Leopardi. Utilizzando in parte una parola vicina all’inglese e, dall’altra una vicina al francese anche Leopardi parlava d’un “rimembrar delle passate cose” e d’un “sovvenire de l’eterno”. (E già il mio pensiero viene verso di te: mi sovviene che hai recitato in un film che si intitolava Remembrance of Things Fast; tradotto in francese La recherche du temps accéléré.) Ma di questa parola, souvenance, si potrebbero trovare risonanze nella parola ebraica Zakhor, quella sorta di imperativo biblico – Ricordati – che impedisce di dimenticare quel che è stato.
La souvenance, a partire dalla lettura di Benjamin, mi si impone come la necessità di ritornare sul passato, sempre e per sempre. Impedisce di dimenticare il passato e, al tempo stesso, di lasciare che si cristallizzi in un’immagine morta; impedisce che si concluda. Rifiuta l’immagine di un passato monumentale e del sentimentalismo nostalgico e reazionario. La souvenance è una scossa che fa tremare l’immagine del passato: ce la ravvicina dandogli la luce del suo colore vivo. Ma la souvenance non è, soprattutto, una commemorazione (un Andenken). Non ha nulla di solenne, anche se domanda una partecipazione, un’esperienza comune, una comunione.
Mi è parso allora, in quelle giornate di grande caldo e di luce, tra il blu scuro del mare e il verde degli alberi, che fosse proprio su questa (queste) parola (parole) che ci si dovesse interrogare per capire un certo rapporto tra l’arte contemporanea e il tema della comunità. Come se nell’arte risuonasse senza posa un basso continuo che ritornasse sempre sullo stesso tema: ricordati del comune, di quel che è comune a tutti gli umani, a tutte le arti, e a tutti i tempi. Come se l’arte, la praxis (questa vecchia parola greca che Marx ha conservato nel suo vocabolario e che indica una pratica che costituisce il suo stesso oggetto e il suo soggetto nell’atto stesso del suo stesso fare), come se, mi dicevo, la praxis dell’arte si giocasse in un va e vieni tra la memoria e l’inevitabile anacronismo che ci colloca sempre in una condizione “di posterità” rispetto a qualcuno o a qualcosa. Noi siamo il legame tra il passato del comune e il suo avvenire. Nella necessità di ricordarsi, di non dimenticare, persisteva come uno iato che porta il problema del comune a lacerarsi tra la memoria e l’anacronismo, tra la volontà di rendere “omaggio al passato” e la necessità di farlo diventare “nostro”. Tutto ciò mi fa venire in mente i film di Derek Jarman, nei quali memoria e anacronismo entrano in profonda comunione. Sempre la ripresa di una vita e un indirizzarsi a: Caravaggio, Wittgenstein, Edward II ecc.
Nel mese di settembre, su una rivista, leggo una lunga lettera che hai indirizzato a Derek Jarman otto anni dopo la sua morte. Una lettera magnifica e forte. In fondo, vi sostieni precisamente quel che si deve dire sulla comunità nell’arte. Ho la sensazione che non mi rimarrebbe più nulla da aggiungere, e che dovrei leggere semplicemente la tua lettera. La tua lettera che è, a sua volta, la storia di un dialogo ininterrotto con corpi e spettri; la storia della tenerezza di un debito che non si può estinguere, e la storia di un’eredità sempre a venire. C’è tutto: è quella la questione del comune, di quel che vi è di comune nell’arte e della sua comunità.
Ti indirizzi a Derek, in una lettera che mi commuove sino alle lacrime. E ti indirizzi “nello spirito di Derek Jarman” (è il titolo – che ho trovato su Internet – del tuo intervento, della tua lettera, letta al festival di Edimburgo nell’Agosto del 2002). In effetti, come mi ha mostrato un giorno Jacques Derrida, è proprio a degli spiriti e a dei fantasmi che sempre ci indirizziamo: ai morti e a quelli che non sono ancora nati. E la storia dell’arte, di ogni arte e di tutte le arti, è la storia di questo entrare e uscire di spiriti che Shakespeare ha così ben compreso: Enter the Ghost, Exit the Ghost, Re-enter the Ghost (Amleto).
Se l’arte ci parla sempre di una comunità, è perché è questa casa degli spiriti in cui le generazioni si danno del tu e si incontrano senza gerarchia, senza paura – anche se sono sempre in uno stato di spaesamento, di Unheimlichkeit.
In effetti capisco, dopo alcuni giorni di spaesamento, che questa storia di corpi e di spettri, di debiti e d’eredità non è mai data, non ha punto finale, non ha alcuna chiusura possibile: è sempre da riprendere. I dialoghi sono infiniti, i debiti eterni. Bisogna sempre che questa storia sia ripresa, reindirizzata a qualcuno. Bisogna che il dialogo continui, che la voce ritorni e che le parole, sempre di ritorno come spettri siano accolte. Quindi mi faccio carico del debito che le tue parole generano nei miei pensieri e mi indirizzo al tuo spirito, al tuo spettro, alla loro tenerezza.
Incomincio, allora: cara Tilda e mi accorgo subito che ogni indirizzarsi è preceduto da questa parola: caro, dear, cher. Ogni indirizzarsi è la domanda di una carità, una domanda di caritas, di agape, di tenerezza, una domanda d’amore indirizzata a qualcuno. E questo è il cinema, la scrittura, la filosofia, l’arte: quest’indirizzarsi che non domanda nient’altro che indirizzarsi a qualcuno, e a ognuno, e di portargli una parola d’amore. Il cinema di Derek, di cui parli nella tua lettera, è una parola d’amore che ci è indirizzata, nella sua lingua, così fragile e così forte. Questa parola d’amore che a sua volta egli stesso aveva ricevuto da altri: le parole di Wittgenstein, le parole/colori di Caravaggio o di Yves Klein, le parole di nessuno, le parole di ognuno, le parole perdute e ritrovate.
Tu, Derek, e molti altri, avete inventato una lingua, avete creato la vostra lingua. E questa lingua – che era la vostra, inaudita e violenta al tempo stesso – l’abbiamo sentita e, ognuno a modo suo, compresa, presa con noi. L’abbiamo compresa perché voi avete compreso che ogni parola d’amore passa attraverso la difficoltà di una lingua che non è comune. Sì, perché non è vero che l’arte è una lingua comune, una lingua universale. L’arte è una lingua che non ha mai (quando crea veramente ex nihilo) una misura comune. E in effetti è precisamente attraverso quest’estraneità, quest’incommensurabilità, che essa crea il comune, quel che è
comune. L’arte non è il linguaggio comune: lo crea, è la creazione di un linguaggio. E lo crea perché rinvia ogni linguaggio a una singolarità assoluta, a un’esistenza, a quel che, secondo l’etimologia, è sempre fuori del suo essere. Quando l’arte s’indirizza mette ogni linguaggio fuori di sé, e in questo modo mette in comunicazione dei monolinguismi, delle solitudini, delle monadi. L’arte, come l’amore (ma esiste un’arte che non sia una parola d’amore?), è questo ponte che mette in relazione le solitudini, conservando la loro solitudine. L’arte è questo linguaggio che non è di nessuno – il più solitario dei linguaggi – ma che ci mette in comune, che ci fa amare, che ci tocca e sconvolge la nostra solitudine, impedendole di diventare del solipsismo o dell’egoismo. L’arte: una comunità di solitudini; il comune che non vuole sopprimere la distanza, che non vuole ridurre tutto a una sola lingua; il comune che lascia venire, sovvenire, la parola dell’altro nel silenzio dei morti, squarciato dalle urla dei neonati.
Rientrato a Milano, ho avvertito chiarissima la sensazione che occorresse riprendere ancora le tue parole, e indirizzarle a te e agli spettri, ai morti e ai neonati. Ma vi dovevo queste parole, queste parole d’amore in una lingua, il francese, che non è mia e che non è nemmeno la vostra. [Il testo è stato scritto e letto a Lione in francese ed è stato poi tradotto in italiano]. Non si poteva che scrivere in una lingua che non fosse la nostra per qualcuno che ci avrebbe letto in una lingua che non era la sua, o forse non avrebbe neppure letto. L’arte – che era ben prima e ben al di là delle mie parole –, in quest’indirizzarsi, diventava un gesto senza ritorno e senza riconoscenza, che non domanda nulla, che non vuole nulla, salvo indirizzarsi, esprimersi, dirsi. Come l’amore, è la fedeltà a un evento, e più precisamente all’evento di quel che ci è comune senza che lo si sappia ancora – poiché quel che ci è comune non è nient’altro che il nostro amore, nient’altro che questo niente che è l’amore. L’arte/l’amore è dunque quest’apertura che non apre su null’altro che su di sé. Una rivelazione senza rivelato.
Il comune è il senza misura dell’apertura sull’avvenire. E’ sulla soglia di quest’apertura che l’arte è in grado di esistere e che la “storia” dell’arte (questa storia di corpi e di spettri, di debiti e di eredità) si mescola alla “storia” di un sogno, del “sogno d’una cosa” (Marx) sempre in grado di (av)venire, il sogno sempre realizzabile e in qualche parte da realizzare del comune. Il comune dell’arte è uno spazio o un far spazio in cui una pluralità di immagini e di figure, di parole e di suoni vanno impercettibilmente a tracciarsi, lasciando traccia di sé. E’ come una rottura che si apra sotto ogni immagine fissa, come il sommovimento silenzioso di una moltitudine. Il comune avviene dove i miti dell’arte e dell’artista si arenano, dove non c’è ancora una regola stabilita, dove non c’è che una forza costituente e non ancora costituita, in cui l’amore salta agli occhi. Non si mostra che in passaggi effimeri: in un’immagine, in un dettaglio, in un ritmo o una passione inattesi e nelle loro corrispondenze. Come ha mostrato Baudelaire, aprendo la modernità, il comune segue sempre la logica del con, in cui gli uomini e gli spiriti, le immagini e le cose si rispondono lasciando che un senso comune, inaudito e impercettibile, sovvenga a dispetto di tutti i discorsi normativi.
Il futuro del comune è in uno sguardo e in una prassi che a partire dal presente, dall’hic et nunc, di questa
società e di quest’arte, sotto tanti aspetti disastrose, siano capaci di tracciare dei nuovi possibili. Se non si vuole rinunciare a una nuova esperienza del comune non bisogna soprattutto lasciare che il pensiero dominante occupi tutto lo spazio della memoria, facendo diventare tutto “classico”, “situato storicamente” e, di conseguenza, non lasciando più nessuna fessura nella quale si possano infiltrare, sotto o a fianco, altre figure. Abbiamo bisogno di nuove immagini che vengano al mondo, al di sotto dello spettacolare e della sua miseria. E come dici benissimo, questo al di sotto dello spettacolare è, forse, così semplicemente un “sotto il tuo letto” nella vita comune.
Bisogna che il comune resti comune. Bisogna che non sia soltanto, come dici, una tradizione in cui alloggiare, ma che sia anche un’eredità, che come ogni eredità non è mai data, ma sempre da re-inventare. Bisogna non dimenticare, ma bisogna anche rilanciare il passato verso il suo avvenire. Bisogna amare i morti come si amano i neonati. Bisogna lasciarli vivere, senza proiettare in essi un’immagine predefinita. Ancora una volta, la comunità nell’arte spinge verso l’amore, e l’amore verso l’arte. Nella souvenance del comune dell’arte non vi è che l’amore e la forza dei suoi legami slegati.
Il solo imperativo è: “ama” tutto quel che ti sovviene, che viene al di sotto di te e ti sostiene senza che tu lo sappia. Ama senza dimenticare niente, perché il tuo amore è la piccola speranza comune che ti è stata affidata. E’ a te, e soltanto a te, che si dà fiducia affinché non sia perduta. Non sprecare / questa flebile / forza messianica. / Il vento d’aprile / sulla guancia del fiore, / il tuo viso /nella distesa del prato – /Non sprecarla. (Walter Benjamin)
Non c’è comune nell’arte senza amore per quel che è stato. Come non c’è comune senza la speranza di salvare il passato in una memoria comune. Fare arte, pensare, vuol dire sperare, avere e dare speranza, anche se ogni speranza è sottomessa a un pessimismo della ragione e a un ottimismo del cuore (o della volontà, come diceva Antonio Gramsci chiuso nella prigione in cui i fascisti lo lasciarono crepare). Non c’è mai l’uno senza l’altro in un vero pensatore, in un vero artista. Ogni opera d’arte, persino la più disperata – se è la condivisione di questo sogno del comune – , ci illumina gli occhi di speranza, dandoci da pensare la questione del comune.
Questa lettera non è che un abbozzo. Ma là, cioè qui a Lione, dove la sto leggendo, può essere che già abbia parlato troppo, che abbia utilizzato troppo tempo, troppe parole – anche se dovrei aggiungerne molte e ho come la sensazione di non aver ancora detto nulla. Può anche essere che questa lettera indirizzata a te non ti arrivi mai, come la lettera mai inviata che tu e Derek avete trovato sotto un tappeto al Prospect Cottage. Può invece essere che sia la prima di una lunga corrispondenza, forse non è destinata solo a te, ma a qualcun altro, all’ignoto. Forse un giorno Matilde, la figlia di due amici, che è nata ieri, il 3 novembre del 2003, la leggerà e la sentirà come indirizzata a lei. Può essere, può essere. The Maybe, il Forse, il Può essere: il titolo della performance che hai fatto, con Cornelia Parker, alla Serpentine Gallery. E’ mia moglie, Alessandra, che ti ha visto parecchio tempo fa’ addormentata in una scatola di vetro e che me ne ha parlato in questi giorni. E’ negli occhi di un altro che ho imparato a vederti: è sempre così che si impara a vedere. Ho trovato l’immagine su Internet e l’ho sotto gli occhi mentre ti sto scrivendo. La guardo come guardavo ieri Matilde che dormiva nel suo primo giorno di vita.
Dormi in una solitudine che niente può toccare. Ti guardiamo in silenzio. Uno spazio comune si traccia. Tutto ricomincia. A chi mi sto indirizzando? A te, a lei, a me, a voi, alla gente comune.
Federico Ferrari