Aspire v3 non è un concetto. Regola un’autosomiglianza, reinterpretando la simulazione di una tensione. Non è un teorema. Gestisce protocolli commerciali, modulando l’erogazione del piacere ancor prima che questo diventi idea.
Di ispirazione cartesiana, dissimulante quanto basta. Non ha convincimenti propri, ma pixel, tasti touch e compatibili funzioni alchemiche. Riformula la perfezione, quasi inibisce la più incidentale tra le velocità. Esclude qualsivoglia contagio emotivo, ma possiede l’esercizio al ricatto se scava tra le premesse di “quelle intime ragioni”. Sa eccepire il tormento, ma si ferma alle intenzioni se si è addestrati a quel generico eludere. I parametri algebrici, poi, sono in sintonia con il valore dello scopo. L’atanor globale, infinitamente compiuto: impassive, celebro. Lo incastro tra le cosce. È caldo, più dell’affetto retribuito dalle canoniche cerimonie matrimoniali. Tremante, ma di rado, e soltanto per le riconsiderazioni etiche dopo l’“urto”. Alle tre del mattino, nel determinarsi antropologico della indifferenza. Isolato, ma riuscendo a governare le condizioni delle alternative. È semantica animale, un altrove ricco di prelibate conseguenze. Un altro mondo gastronomico… In altre parole, l’intolleranza alla scelleratezza delle implicazioni domestiche.
Alloggio il mio piccolo avamposto. L’ora è quella. Crimini e misfatti. Lo avvio, come uno di quei pretesti che alludono ad artificiali meraviglie. Petrolio rosso, ineccepibile. E inghiotto i primi entusiasmi sequenziali. Un frastuono estetico, languidamente debordante. Dal nero decadente, evitando eccedenze stilistiche, al ridondare barocco. Tutto edulcorato da gotici avviluppi in 3D. Petrolio rosso, appunto, e a due passi dalle tiepide coniugazioni conviviali. Di là, tra scoli incavati e grammatica iconografica, l’andito e quel mesto contratto di sconvenienti circostanze.
Il corridoio incunea filari di affetti incorniciati e rassicuranti pleonasmi. L’etimologia delle pulsioni, invece, è tutta qui: nella riconfigurazione di una sequenza…
In attesa.
1, 2, 3… touch meat. Divinity repeatable.
In attesa di sconcertanti, ma quanto mai appaganti metafisiche.
Dai vetri, la solita prospettiva di pali affissi a lampade e di muri lucchettati.
1, 2, 3… touch meat.
All’esterno il mondo si decuplica. Un mondo descrivibile. All’infinito, drappeggiano citofoni e falliche compensazioni. Ricorrenze in copia. Come gli abitanti passati allo scanner. Un mondo in serie su per le rampe della torre n° 5 barra elle, scala a, ottavo piano, interno 13. Benemerenze di scarti ed ermeneutica di traffici. Sorrido. La mia strada di sotto: la conseguenza credibile della perfidia.
Dal civico 21 al 233, lungo l’asfalto, le solite incensurabili intermittenze: puttane e compattatori. Le frequenze numerate, sulla gamma delle variabili. Registri rituali che smarriscono e poi riemergono.
Uno vecchio, l’altro sui trenta.
“Il solito bordello.”
“La solita merda!”
“Din, din, din!”, e ripartono, entrambi, verso le conseguenze estetiche della savana.
Celebrità indifferenziata: puttane e compattatori. Rido. La prospettiva torna pura. Pali e muri. Citofoni e tralicci.
In lontananza, solo cani.
Le prime rifrangenze le sento forti, fra le vene, fino alle periferie celebrali. Quelle oltre la fisica meccanica dell’atto, alla fine. Ho tutta la permanenza del mondo in sette minuti di mistica rassegna. È buio. “Lei” è di là, invece. Nonostante le differenze alimentari, è mia moglie. Il senso infrangibile del sacro. La sopportabile visione del mio perdermi morale e del suo procedere etico. Mia moglie, quell’insieme di metallurgia religiosa e di chimiche infruttifere. Mi derubrico tra le consorterie delle complicità notturne; tra un po’ lascerò che la ripetibilità narcisistica riproduca l’imprendibile Big Mama estetico. Possiedo la “tecnica” e quella opportuna dimestichezza con “l’espediente informatico”. Vista l’ora improbabile, possiedo una scusa legittima: come sempre, da un po’ di tempo, la salvante via di fuga.
Aspetto la connessione. 1, 2, 3, 5, 8… 13: inalterato Fibonacci.
Search. Logout. Login. L’url. La piattaforma.
Dio.
Il paradiso.
Ne apro un’altra… deve essere sempre disponibile la pagina salvante: il piano b. Ogni altro elemento deve corrispondere alla somma delle risposte che lo precedono. Alla fine, sarà la mia mano a governare sia la complessità primordiale che la punta della mia vogliosa vocazione. Sono disciplinato. Programmo con largo anticipo la visione. Sono addestrato a risolvermi nel piacere fra risentimento e vene. Scorro il mio sudore, fra scarti e complessità saffiche. Il mio palato sa “chi” cercare. Soprattutto dove.
Torno a dio.
“Enter”.
Un fruscio di lama. Sento il dovere di affermare: finalmente a casa. Ecco l’uomo. Potente, più di una mimesi dopata: la scomposizione delle parti in un rush di cinque minuti, forse sette. È un mordere di prospettive nevroticamente riequilibrate, tutto dentro un ostensorio di calibrate chiese clandestine. Cerco. Cerco e cerco. La mia recherche. I miei demoni dosabili sanno di quale acqua ho sete e su per quale inferno dedurre i miei spettacolari maschi sillogismi. In silenzio e col silenzio, ronzii e ferro. Lo schermo si illumina e inghiotte refrattario. Caldo, che sa di geografie ossidanti e di artifizi geometricamente modellati.
“Cazzo!”
È un attimo: la silloge del terrore. Dentro il cavedio, un rumore bianco, domestico, casalingo, condominiale, raccapricciante.
“Cazzo!”
E riduco tutto quel “ben di dio” a piccola icona. In basso, a destra, tra altre sette nascoste. E scompaio, in attesa. Ho il cuore in gola. Dura poco, un frantumo d’istanti che versano in terra miscugli di allibito panico. Ma come per la cattiva intenzione, torna il mio delitto emancipante.
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Clicco.
Il richiamo al coltello.
Schermo intero. Dio. E riassetto la calibratura.
Ed eccomi. Sul catrame sentimentale del Porno Paradiso Boulevard.
Categories.
Sluts.
Anal e blowjobs.
I più visti, i più votati.
No chat. No sex zone. No minori. Sono uno per bene, io.
Stanotte voglio scopare il lato sinistro del pudore. Voglio pomparmi la parte pregiudicata dell’intendere etico del mondo. Dovrà essere multiplo, come ghiaccio fruttante, un paradiso brutale,privo di oscenità redenti e pretese salvezze aberranti. Ho tutto in mio potere. Sono io l’artefice, l’iconoclasta. Qui, non ci sono arrovellanti colpe da sostenere, comando io. Nessun conflitto. L’alterigia modera il rimpianto e la boria gestisce l’esitazione. Porno Paradiso Boulevard: è zona franca.
I choose, I am.
Palmo destro, kleenex e amianto caldo a gocce.
Lap, lap, lap, lap, lap, lap elegia fonicamente imitativa.
L’iconoclasta possiede i fondamentali del piacere e l’antrace della dissolutezza. Tutto un sistema complesso di voglie dentro pochi centimetri di palmo. Io sono ciò che siete. Rido. E con me ridono gli incisivi, ficcati dentro il lato dispari dei miei occhi.
OMG.
“Oh my god… I came!”
Divoro l’egoismo, emancipando il peccato dalle pertinenze della colpa e la mano destra comincia a trasformarsi in livellatore gastronomico.
Io sono la matrice. L’untore. Gli stati generali.
Porno Paradiso Boulevard è zona mia.
E vengo.
Vito Benicio Zingales
Photo credit: Fabio Corvini