Una scrittura quella di Mariangela Maritato molto densa e ricca di particolari, suggestioni che ci riportano a epoche trascorse. Il killer della ghigliottina. Delitto in galleria, inedito che ha regalato a Satisfiction, si presenta come un “quadro” in cui si alternano personaggi avvolti dal mistero. Proprio come le tele in cui compaiono rappresentazioni evocative di luoghi enigmatici, dove la natura diviene mito e induce al sogno. Inizio folgorante, misterioso, denso di dettagli, che subito catapulta il lettore in un’atmosfera permeata dal mito e poco dopo un nuovo scenario. Le epoche si sovrappongono oppure è solo un’interpretazione della realtà che attinge a fatti già accaduti. Si mescolano così passato e presente e, mentre una sigaretta si consuma sul posacenere e il fumo grigiastro salendo verso il soffitto delinea strane figure, il giornale riporta la notizia della morte del gallerista insieme a un messaggio inequivocabile: “À Marat, David”. La scena scontata di un delitto lontano. Quali i motivi del folle gesto? “La vittima aveva in testa ancora il suo cappello nero di feltro e una lettera tra le dita della mano destra, appoggiata sul versante sinistro della tinozza in ceramica bianca. Jacques Louis David nel 1793 dipinse il corpo assassinato del rivoluzionario francese mettendo in evidenza il corpo di Marat. Un lavoro realistico che in realtà celebra il trionfo dello spiritualismo. Carlotta lo sapeva bene.” Mariangela Maritato costruisce un racconto dove arte e storia si fondono, dove il delitto in galleria frutto di una mente perversa accecata dalla banalità del male, appare in tutto il suo sadismo, portando il lettore a interrogarsi sulle molteplici sfaccettature della crudeltà umana.
Silvia Castellani
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Era avvolta in un sudario con gli occhi scoperti. Il collo immobilizzato come il resto del corpo dalle fasce e il cranio dolorante, in piedi come una mummia con le braccia incrociate sul petto a prua di una piccola scialuppa a remi. A poppa, qualcuno remava alle sue spalle. Un movimento ondulatorio e il suono del vento. La salsedine negli occhi che continuavano a lacrimare. Tutto intorno, il blu cobalto misto al grigio di un mare piatto, stagnante. All’orizzonte, un’isola.
Rocce scavate alla perfezione, faraglioni a strapiombo sull’acqua. Finestre nere dietro fronde di cipressi le cui cime eguagliavano in altezza quelle delle cime delle montagne. A volte le superavano. Tra i tronchi si apriva un viale stretto e lungo che portava fino ad una radura oscura. Il forte odore di terra bagnata e la sensazione di soffocamento la colse fino al panico. Il mare diventava sempre più rosso, come una pozza di sangue. Non riusciva a respirare.
Carlotta si svegliò di soprassalto. Non riusciva a muovere a causa dei crampi gambe e braccia. Un incubo che aveva lasciato sul divano. Erano già le sette del mattino, prese lo scialle di lana e se lo pose sulle spalle, scendendo lungo le scale. Il candore misto al freddo era quello dei primi giorni d’inverno.
La città in lock-down per la pandemia, sembrava un deserto dal silenzio assordante. “A volte un’opera va al di là delle intenzioni di chi la compone” – pensò tornando alla scrivania con in mano la foto del dipinto che aveva sognato. Nell’altra mano una tazza di tè fumante.
Arnold Böcklin, con un solo dipinto aveva segnato intere generazioni di artisti e geni romantici. Il pittore simbolista nato a Basilea il 19 ottobre 1827 da una famiglia di mercanti era stato scelto dal gallerista Fritz Gurlitt che espose per primo una delle cinque versioni dell’isola a Berlino nel 1884. “L’isola dei morti è pronta finalmente, sono convinto che susciterà l’impressione che desidero”- scriveva il pittore.
Il realismo cominciava ad affermarsi in tutta Europa ma quando si trovava a Roma iniziò ad inserire nelle sue opere rappresentazioni mitologiche della natura. Quel quadro evocava il mito ma era al tempo stesso reale in quanto la vera fonte geografica di ispirazione era l’isolotto-fortificazione del castello di Alfonso d’Aragona, ad Ischia, dove era stato per la prima volta con il giovane pittore tedesco Hans von Marées nel settembre 1879, appena sei mesi prima della realizzazione delle prime due versioni di “un dipinto per sognare”. Cinque versioni in tutto, diverse per gradazioni di luce e toni di colori, prodotte tra il 1880 e il 1886.
Lo stimavano in molti. Adolf Hitler con il suo piano internazionale. Sigmund Freud e Albert Einstein coi loro viaggi nel tempo fino alla Gerusalemme liberata del pacifismo radicale. Vladimir Lenin ne rimase scioccato. Il superindividualismo nazionalistico tedesco da una parte. Il comunismo di Stato dall’altra. Il primo ne aveva acquistato una copia ad un’asta nel 1936 per collocarla nel suo bunker. Lo notò anche Peter Hammersmith, una spia americana di origine tedesche spedita a Berlino dal presidente Herbert Clark Hoover in Germania con l’obiettivo di spiare il gerarca, il suo movimento, la cerchia esoterica di abili illusionisti convinti nella superiorità della razza unica e ariana che stava seminando terrore nella capitale tedesca con attentati e omicidi politici e che si salvò grazie a un bunker segreto nel sottosuolo della Banca Nazionale tedesca. Solo in seguito diventata federale. Riuscì a stendere il suo rapporto al Presidente Usa prima che il soffitto superiore venisse giù, sbriciolato dai colpi dell’armata rossa di Stalin. Il crepuscolo degli idoli del 30 aprile 1945. Il giorno dopo, Radio Reichssender trasmise la Siegfried Funeral March, il requiem di Wagner prima di annunciare la morte del Fuhrer. Era il primo maggio dell’anello dei Nibelungho e del grande orgoglio nazionale. Il Fuhrer dei tedeschi si era suicidato con un colpo di pistola alla testa e sua moglie Eva Braun era morta per avvelenamento da cianuro. I corpi non vennero mai ritrovati per esplicita volontà dei sovietici. Le ceneri occultate sotto una montagna di macerie. Secondo il Kgb bisognava cancellarlo anche nel ricordo perché sarebbe potuto sopravvivere il culto. Una teoria smentita dai fatti. I resti degli idoli del popolo tedesco furono più volte riesumati e sepolti. Le ceneri della famiglia del ministro della propaganda Goebbels, suicidato con sua moglie Magda e i suoi sei figlioli ebbero una tomba anonima sotto un tratto lastricato del cortile anteriore della nuova cancellaria del Reich di Berlino progettata dall’architetto Albert Speer per volere del Fuhrer stesso, proprio intorno all’angolo di Wosstrasse. Una nuova isola per i morti. Il dipinto tanto amato. La committente dell’opera, la contessa Maria Berna Oriola, aveva espresso il desiderio di avere un quadro in grado di far sobbalzare nel solo sentire bussare alla porta. Proprio di fronte all’Isola con il castello c’è un cimitero a terrazze addossato alla roccia, con un approdo a riva costruito nel 1836 durante l’epidemia di colera. A quel tempo i morti venivano trasportati al camposanto anche via mare e Böcklin nel 1879 aveva alloggiato a Villa Drago, nei pressi di questo vecchio cimitero, oggi ricoperto di sterpaglie e completamente privo di croci. Un’atmosfera fatale che con regolari figure ripetute di 5/8, dai bassi ai contrabbassi divenne, tra il 1907 e il 1908, il poema sinfonico di Sergej Rachmaninov, compositore russo naturalizzato americano che aveva visto l’opera a Parigi nel 1907 trasponendo in musica le sue atmosfere tetre. Dal tema della morte a quello della vita di flauti e violini fino alla Dies Irae finale.
Un totale disincanto. La sigaretta appoggiata sul posacenere di noce di cocco si consumava lentamente e il fumo grigiastro, salendo verso il soffitto in legno, delineava strane figure. Comoda sulla sedia allungò le gambe in avanti, scivolando lungo lo schienale e portando la testa indietro. Si stropicciò gli occhi un po’ stanchi e scartò dal cellophane il giornale. Una foto in bianco e nero riempiva la prima pagina del quotidiano. Un grande titolo in caratteri cubitali la fece sobbalzare con occhi spalancati. “Trovato morto in vasca da bagno”. Nell’occhiello i primi particolari. “Il corpo senza vita del proprietario della Labdaco Arepo & Co. trovato esangue in una vasca da bagno dalla polizia. Si indaga sui motivi del folle gesto”. La foto mostrava il cadavere dell’anziano gallerista e mercante con il braccio penzolante in avanti e con al collo un ciondolo con la stella di Davide. Di lato a destra sulla pagina, la locandina di uno spettacolo. Sul pavimento, un grande ed affilato coltello giapponese, lama Miyabi prodotta da Zwilling J.A. Henckels e una stella a cinque punte rovesciate tratteggiata col sangue. Sulla cassa di legno, a fianco della vasca, un messaggio inequivocabile: “À Marat, David”. La scena scontata di un delitto lontano. La vittima aveva in testa ancora il suo cappello nero di feltro e una lettera tra le dita della mano destra, appoggiata sul versante sinistro della tinozza in ceramica bianca. Jacques Louis David nel 1793 dipinse il corpo assassinato del rivoluzionario francese mettendo in evidenza il corpo di Marat. Un lavoro realistico che in realtà celebra il trionfo dello spiritualismo. Carlotta lo sapeva bene. “Crudele come la natura e con tutto il profumo dell’ideale”, commentava dalle sue stanze decadenti Charles Baudelaire. I suoi Fiori del male su una cassa da morto. Nonostante la sua ascesa sociale Jean Paul, il cui padre era originario di Cagliari e conosceva il dramma della migrazione e la persecuzione politica, continuò sempre a dichiararsi nemico del dispotismo e a fare politica scrivendo il suo giornale, L’Amie du peuple, da una mansarda di Rue de l’Ancienne Comedie dotata di finestra con campanello per buttare giù il giornale pronto e darlo alla stampa e alla distribuzione. Nel 1777 era rientrato da Londra a Parigi per darsi alla professione medica guarendo con un suo preparato la strana forma di polmonite di cui era affetta la giovane marchesa Claire De Choiseul De Laubespine De Chateauneuf. La svolta della sua carriera. Raccomandazione in direttissima per la corte di Luigi XVI e medico delle guardie del corpo del conte d’Artois. Nonostante un’immensa casa in Rue De Bourgogne, non perse mai la sua fede illuminista e rivoluzionaria giurando guerra con le sue iniziali al dispotismo militare. Il suo Piano di Legislazione criminale non vinse il concorso a cui venne chiamato a partecipare. Si trattava di una denuncia aperta della legge, della giustizia e del diritto di proprietà fortemente classisti del tempo. Un netto rifiuto dell’ordine sociale e morale costituito. Un piano censurato. Il telecomando era rimasto sul comodino. Una lama di coltello nella mano per tagliare la frutta. In mano, un cellulare. Carlotta si alzò e accese il televisore al plasma. La faccia del presunto assassino anche nello schermo, il mostro buttato in prima pagina. Gli agenti avevano scovato in casa un arsenale. Un sedicente militare che aveva sterminato una scolaresca il giorno prima e che stava progettando un nuovo attentato. L’ombra della svastica e del satanismo. Un suprematista bianco neonazista devoto a Hitler. Un’associazione terroristica con una base in ogni Stato. Il culto di Satana, la stella a cinque punte rovesciata. La banalità del male che passa attraverso la necessità del sacrificio umano. Dietro, l’ombra dei Riots e una fitta rete di spionaggio. Un fronte di combattimento popolare. Un gioco di ruolo che coinvolge i vertici e la rete dell’odio e della propaganda. Sangue e Onore. Bastardi senza Gloria e veterani. Combattenti 888, numero esoterico associato alla figura del Mein Kampf. Nazionalsocialisti di ritorno e teorici del protocollo di Sion e del complotto mondiale. Non solo la storia del Cinema. Atomwaffen, 09A. Ex combat 18 convertiti all’islam radicale. Antisionisti per vocazione. Obiettivo, base Nato in Turchia. Mandanti allo scoperto. Un lupo solitario e un giro di cybercrime. Un rapporto militare “riservato”. Secondo l’accusa, terrorismo interno. Addestramenti militari sotto la croce templare. Massoneria insieme al Ku Kux Klan. Un gioco di ruolo con duplice omicidio con precedenti esemplari. Un attentato pianificato. La città era in piena agitazione. Un unico grande manicomio, come quello di Charenton dove il marchese D.A.F. De Sade si era rifugiato durante la Rivoluzione francese. Un sadico insofferente, autore di romanzi erotici e drammi libertari, esponente dell’area più estrema del libertinismo. Ateo, materialista e anticlericale, aveva diretto alla presenza di uno scelto pubblico di invitati un dramma sull’omicidio di Marat che, per una malattia della pelle, era solito fare attività politica seduto in una vasca da bagno. Spinto dalla sua passione politica e dal suo zelo rivoluzionario, era convinto di fare uno scoop giornalistico accogliendo nelle sue stanze una giovane donne che più volte gli aveva scritto. Voleva dimostrare di non essere una testa calda rispondendo alle critiche di chi lo perseguitava. “Gli uomini leggeri che mi rimproverano vedranno qui che lo sono stato di buon’ora, ma ciò che essi rifiuteranno forse di credere è che fin dai primi anni sono stato divorato dall’amore della gloria, passione che mutò spesso d’oggetto nei vari periodi della mia vita, ma che non mi ha mai abbondato un istante. A cinque anni avrei voluto essere maestro di scuola, professore a quindici, autore a diciotto, genio creatore a venti, come ambisco oggi a immolarmi per la patria”. Un errore fatale. Era una torrida giornata d’estate. Charlotte Cordoy aveva chiesto più volte di essere ricevuta ma era stata respinta. Munita di una lettera di presentazione, venne finalmente ammessa alla sua presenza. Per gli eccessi rivoluzionari e la proscrizione dei beni dei deputati, aveva già deciso di far sparire colui che, secondo lei, era il principale sobillatore della guerra civile. Lo pugnalò dritto al cuore con un coltello nel suo bagno. Nel film, al termine del dramma, i pazzi sino ad allora controllati dalla sorveglianza, diventarono sempre più violenti fino ad arrivare a malmenare non solo i sorveglianti, gli infermieri e le suore, ma anche il direttore dell’ospedale. Alla fine distrussero il materiale scenico. Era un rivoluzionario ma anche un criminale condannato in via definitiva per “libertinaggio” (condotta sessuale illegale e produzione di materiale pornografico e illecito), denunciato da suocere e parenti. Come nel film storico e drammatico “Marat/Sade”, diretto da Peter Brook nel 1966 ispirato al dramma di Peter Weiss, allievo tedesco e cecoslovacco di Bertold Brecht. Il teatro come rappresentazione della brutalità e della crudeltà umana. Un documento e un atto di accusa in una pellicola contemporanea. La scena del crimine in un fotogramma.
Mariangela Maritato