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Esasperare la morte per celebrare la vita. Intervista a Madeleine Fléau

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Madeleine Fléau

Ho cercato nel dizionario il significato di Fléau e ho trovato questo: flagello, calamità, catastrofe, il flagello della guerra, questo scapestrato è una spina nel fianco della sua famiglia, Attila flagello di Dio.

Con questa parentesi v’introduco Madeleine Fléau, artista multidisciplinare, performer, video artista, fotografa, scultrice, un’interprete esistenzialista, melanconica e ironica. L’unicità di Madeleine Fléau risiede anche nel suo volto cinematografico che diventa protagonista dei suoi autoscatti che realizza con un semplice smartphone. Una costruzione di una Dark Lady impeccabile per la scelta accurata dei costumi e del trucco e la sua personale e riconoscibile ricerca estetica. Madeleine Fléau è un’opera auto concepita, un entità che si manifesta attraverso un suo mondo immaginifico, decadente come l’aristocrazia e come i suoi memento mori che esasperano la morte per celebrare la vita, un astrazione del sé per far riemergere lo spirito e i ricordi seppelliti.

Paola Fiorido

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Da dove attingi il tuo mondo immaginifico e le tue creazioni?

Le influenze di cui la mia arte è affetta sono molte: dal cinema espressionista tedesco degli anni ’20, la fotografia spiritica di fine ’800, il surrealismo francese degli anni ’30, l’immaginario gotico della letteratura inglese, alle leggende “folk” italiane o straniere, o ancora alle tradizioni popolari legate al sentimento religioso.

Quali sono i tuoi principali punti di riferimento nell’arte, le tue muse?

Difficile fare dei nomi, molto spesso coloro che hanno maggiore impatto sul mio lavoro sono artisti e artiste pressoché sconosciuti, trovati per caso navigando nel web o stringendo amicizie. Se proprio devo menzionare qualcuno che ammiro direi: Joel Peter Witkin, la fragile Francesca Woodman, Hermann Nitsch, Man Ray… e soprattutto la sua Kiki de Montparnasse! Sempre a proposito di donne che mi ispirano ogni giorno non possono mancare all’elenco Marlene Dietrich, Pola Negri e Theda Bara.

 

Come sei arrivata a incarnare Madeleine Fléau?

Lei è sempre stata qui, fin da quando ero piccola, aveva solo bisogno di coraggio. Sono stata portata a eseguire continui esercizi d’introspezione, conoscersi è fondamentale; eliminando le barriere e i pregiudizi imposti dalla società ho potuto esprimere la mia personalità a pieno e in ogni sua sfaccettatura; apprezzo quel che sono diventata perché la mia libertà mi dà potere rispetto a tanti altri intrappolati nella gabbia dell’ipocrisia. Non ho paura di amare ciò che amo, di studiare ciò che voglio conoscere, solo perché risulta “anticonvenzionale”.

 

Descrivimi un tuo set di autoscatti dall’inizio alla fine.

L’idea si materializza nella mia mente con manicale precisione, devo vederla già realizzata, come in trans devo solo eseguire i comandi come da un manuale. Sono nella mia camera da letto, il “sarcofago” come mi piace definirla, scelgo il colore dello sfondo: bianco o nero, chiaro o scuro; preparo gli oggetti di scena, seleziono le maschere, il personaggio, i costumi, le atmosfere… l’attrezzatura è così irrilevante: luce naturale da una finestra e un piccolo treppiedi a reggere il mio compagno di creazione, lo smartphone. Realizzati gli autoscatti, non li riguardo, smonto il tutto, esco dal mio personaggio e solo adesso inizio l’editing sempre con lo stesso strumento. Adoro gli effetti visivi della pellicola, soprattutto i difetti, le distorsioni, i soggetti fuori fuoco, tutto ciò che è così sbagliato da risvegliare in chiunque l’istinto naturale di doverlo “sistemare” o “rimuovere”, come spesso accade anche con le tematiche che affronto.

 

Un ricordo felice della tua infanzia e uno triste.

I ricordi felici sono rari, non perché io abbia avuto un’infanzia particolarmente problematica, ma perché sono sempre stata una grande pensatrice, ben lontana dal sentimento di spensieratezza che contrassegnava i miei coetanei. Ricordo però che amavo andare in vacanza all’estero con i miei genitori che invece durante l’anno vedevo poco per questioni lavorative, a detta di mia madre ero una zingara, sempre intenta a ballare e scappare. I ricordi tristi sono legati a un pensiero molto comune a cui troppo spesso ero soggetta: il pensiero della Morte. Non ne avevo paura, ma mi veniva in mente spesso e trasformavo i divieti e le avvertenze in paranoie, ogni volta che facevo qualcosa di potenzialmente rischioso (secondo le mie credenze) mi mettevo a letto e cercavo di dormire, convinta che se fossi morta l’avrei fatto nel sonno.

 

Raccontami della tua ricerca sui memento mori.

La Morte è l’aspetto più misterioso dell’esistenza di un essere umano ma anche l’unica certezza che possiede. Il fascino che racchiude è intrinseco nella nostra natura, siamo attirati da ciò che ci spaventa, per la stessa ragione con la quale rallentiamo per osservare meglio se incontriamo sulla nostra strada un incidente. Come un’antropologa ho cercato di scavare nelle tradizioni che accompagnano questo sentimento, e quello che mi incanta è che, ancora prima di iniziare a scrivere, l’essere umano cercava di dare una dignitosa sepoltura alle persone che amava ne preservava il ricordo e avvertiva profeticamente riguardo al futuro a cui tutti siamo destinati.

 

La videoarte è un’altra tua peculiarità, come sviluppi i tuoi film?

I mezzi sono sempre gli stessi il processo però è un po’ più complesso rispetto la fotografia. Per ora mi sono concentrata sulle leggende popolari della Lunigiana, per poter sviluppare con linguaggi differenti la serie che sto portando avanti da un po’: La Terre de la Lune. Perciò inizia tutto con una ricerca più o meno documentata sui fatti che compongono la trama; una volta raccolti nomi, personaggi e date eseguo un rudimentale storyboard, una serie di schizzi di come immagino le inquadrature più salienti o i costumi. Recito le scene avendo ben in mente l’estetica dei film muti che più amo e soprattutto le espressioni dei loro attori. Inserisco dove opportuno le scene con le didascalie, i dialoghi e la colonna sonora, che ultimamente compongo io stessa. E il gioco è fatto.

 

Con quale criterio scegli i tuoi costumi e accessori?

Come ho detto solitamente prima di iniziare ho ben in mente quello che voglio realizzare, mi si presenta sotto forma d’immagine, nitida e precisa. Nella mia vita ho passato moltissimo tempo a fare ricerche su diverse estetiche e immaginari, dall’epoca vittoriana al gotico degli anni ’80, dai primi del Novecento al punk.

 

Mi consigli un libro da leggere?

Leggo davvero molti libri, ma uno che mi ha colpito per la sua dolcezza e per la musicalità delle parole utilizzate è Larcobaleno sul ruscello di Eugenio Borgna, un libro sul tema della speranza dal punto di vista di un medico ma non solo, di un uomo sensibile.

Intervista a cura di Paola Fiorido

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