I lettori italiani non sono particolarmente affezionati al racconto. Strano, perché la nostra tradizione letteraria è legata alla poesia e, anche quando si tratta di prosa, a forme distanti dal romanzo fluviale di altre tradizioni letterarie a noi vicine. La morte dei caprioli belli di Ota Pavel è una nuova, imperdibile occasione per gustare una forma di scrittura nobile, che invita il lettore a un tipo di attenzione diversa. Pubblicato nel 1971, due anni prima della sua morte, raccoglie nove racconti che viaggiano su un delizioso confine surreale in cui i sentieri esplorano il mondo dei sentimenti. Tutto ruota intorno e dentro la famiglia, e soltanto la figura del padre dello scrittore, brillante e carismatico venditore porta a porta di elettrodomestici Electrolux e protagonista del primo racconto (un capolavoro), giustifica la lettura del libro.
Lieve e malinconica, con alcuni lampi di umorismo puro, la scrittura di Ota Pavel (Otto Popper il suo vero nome) riesce a miscelare perfino i fondali della guerra con un candore particolare, come una mano tesa verso il lettore. È come se dalle righe uscisse un bisogno di scambiarsi un certo tipo di calore umano, e in questo senso La morte dei caprioli belli è un libro accogliente, in cui il lettore è trattato molto bene, perché si capisce che lo scrittore ci tiene. La bellezza segreta di questo libro è tutta qui.
Ota Pavel ha scritto meno di quanto avrebbe potuto, un po’ perché è mancato a soli 43 anni, di cui una decina in condivisione con gli ospedali psichiatrici per una grave forma depressiva, e un po’ perché di mestiere faceva il commentatore sportivo. Mi vengono in mente due personaggi della nostra terra, Gianni Brera e Beppe Viola, anche loro i libri li scrivevano durante le ferie estive e nei ritagli di tempo. I due libri di racconti, La morte dei caprioli belli e Come ho incontrato i pesci, li ha scritti proprio in quegli ultimi dieci anni di vita, come se la malattia mentale lo avesse portato ad aggrapparsi istintivamente alle sue radici di bambino ebreo nato in Cecoslovacchia nel 1930, in una piccola cittadina boema a una ventina di chilometri da Praga.
Il tratto deliziosamente acerbo di certi passaggi restituisce sempre un tratto legato alla meraviglia, come se a narrare fosse veramente lo scrittore-bambino. Per questa sua natura magica e avvolgente, La morte dei caprioli belli ha, nel suo genere, il passo elegante del classico.
“La mamma era una bellezza e di lei Lustig era un pochettino innamorato. Una volta era venuto a invitarla un bel signore alto e biondo e papà aveva fatto cenno che sì, la mamma poteva andare in pista con lui. E quel signore aveva cominciato a farle la corte e a metà del ballo le aveva detto:«Lei è così bella» e non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. La mamma aveva sorriso, a quale donna non avrebbe fatto piacere.E poi quel bel signore aveva aggiunto: «Ma sarei curioso di sapere cos’ha in comune con quell’ebreo». «Tre figli» aveva detto la mamma, aveva finito il ballo ed era tornata a sedersi accanto al papà.
“Carpine mie. Carpine”. Ci giocava insieme e loro gli si raccoglievano intorno alle mani come se fossero stati i suoi bambini, dorate e argentate in quel chiaro di luna, avevano intorno un’aura di luce come i santi, non ho mai più visto in seguito delle carpe così. […] Poi si alzò, la luna gli splendeva proprio in faccia e lui aveva sul viso un’espressione della soddisfatta. Andò verso i sacchi e tirò fuori un retino che c’era nascosto. […] Non poteva partire e lasciare ai tedeschi le sue carpe.
Recensione di Claudio Sanfilippo al libro La morte dei caprioli belli di Ota Pavel, Keller Edizioni. Traduzione di Barbara Zane, pagg. 158, € 13,50.