Un inedito di Paolo Maggis – tra i più grandi pittori contemporanei non solo italiano, artista raro che ha deciso di vivere a Barcellona per non essere fagocitato dal mercato – è sempre una sorpresa e un grande regalo.
Maggis è artista e uomo raro: intellettuale senza essere intellettualoide, uno dei pochi con arte ma senza parte. Il che lo rende vincente: a priori. Maggis è un divoratore di libri, di letture, di carta, di inchiostro oltre che avere tutte le potenzialità dello scrittore di razza.
E in questo scritto – inedito appositamente per Satisfiction – per una volta è inutile una introduzione.
Leggete e sarete sommersi non dalle parole ma dall’emozione di essere. Umani.
Gian Paolo Serino
La carta delle pagine dei libri ha qualcosa di meraviglioso.
Sarà per la porosità che colpisce al tatto o forse per quell’odore così familiare di vecchie cartolerie di paese che mi ricorda i sogni di un bambino esondante di desiderio. O forse sarà semplicemente per il suo colore avorio così naturale e prezioso al quale è stato affidato il compito di testimoniare storia e poesia.
La sua fibra porta i segni di chi l’ha toccata, di chi ne ha girato le pagine avidamente, una dopo l’altra. Fumando forse, o forse bevendo un caffè. O semplicemente seduto su una poltrona mentre il mondo fuori dalla finestra corre impazzito.
La carta assorbe gli odori, i sapori, le polveri: dallo smog grigio di Milano alla sabbia biancastra e fine di Mallorca.
Registra impronte di mani sporche di pittura o di grafite, registra una per una le pieghe delle volte in cui il libro fu lasciato a faccia in giù su un tavolo di legno e le macchie di umidità dei giorni di pioggia.
Nella carta ritrovo incastonati i sogni ed i desideri del tempo passato, ritrovo le grinze della mia fronte, i sorrisi ed i respiri profondi. Ritrovo i tanti nodi di pensieri aggrovigliati cercare il bandolo della matassa per poter finalmente essere districati.
In sala ho una libreria dove ripongo i libri fondamentali della mia vita. C’é un po di tutto, letteratura, filosofia, arte, poesia, giornalismo. Ordino tutto per cognome dell’autore indipendentemente dal genere perché per me é sempre contato l’individuo, l’essere umano unico, irripetibile; libero da ogni possibile catalogazione, generalizzazione o collettivizzazione. Amo pensare il pensiero umano come trasversale, dove tutto può aprire un varco controcorrente al flusso meccanico e conformista di eventi e di pensieri condivisi universalmente.
Spesso siedo al lato della libreria e guardo tutti quei libri: li tocco, li prendo, li apro. Cerco al loro interno tracce della mia storia e della mia identità. Ritrovo foto, scritti, appunti, post-it, cartoline, lettere. Trovo nelle pagine i segni del mio passaggio e mentre scorro i capoversi mi sembra di scorrere le linee così familiari del mio corpo .
Guardo il colore del tempo, le pagine ingiallirsi, e cerco di ricordare il momento in cui le lessi per la prima volta, la sensazione ed il trasalimento. Tocco le pagine e rileggo le parole passando l’indice sulle lettere stampate. Alcune son leggermente sbavate.
La bellezza del libro é che la sua materia é viva e respira il passare del tempo.
Il libro é un alleato fidato sempre lì, vicino a te, in ogni istante della giornata. Al riaprirne uno la mente ritrova i suoi percorsi come se ne avesse ancora memoria. O forse é proprio il libro ad averne grazie a quelle tracce che la carta registra ritrovando sempre quelle parole, frasi, brani fondamentali dove mesi, anni o decenni fa si erano imbattuti i tuoi sogni.
Il libro che ha cambiato la mia vita si intitola “Le confessioni di un anima” di Fjodor Dostojevskij pubblicato dall’ormai sepolta Edizioni Mundus Milano. Lo scovai a casa di mio nonno quando morì. Il volume, che forse é l’ultima pubblicazione che si sia vista in Italia di quest’opera, già allora appariva ferito e sebbene lo conservi in una plastica lasciata aperta così che la carta possa respirare, oggi é un corpo fragile, da accarezzare più che da sfogliare.
“Non ricordo mio padre. Morì quando avevo appena due anni. Mia madre si sposò una seconda volta; e questo matrimonio le fruttò molti dispiaceri, sebbene sia stato un matrimonio d’amore.”
Annuso il libro, la carta ingiallita e macchiata, il dorso slabbrato e la copertina dagli angoli smussati. Ne osservo le pieghe, le grinze. Lo giro: una “M” campeggia nel centro della pagina incorniciata da quattro stelle che indicano i punti cardinali. Una meraviglia.
L’ultima pagina é la cento novantadue: il numero appare ingabbiato da due trattini “-192-”. Sopra di esso solo una interlinea vuota ed ancora sopra la scritta “FINE”.
Ha un sapore epico, prezioso, fondamentale, eterno.
Ricordo che quando lo trovai ne fui naturalmente attratto e ne divorai le pagine. Vorrei parlarne ora ma spero di poterlo fare il giorno in cui forse verrà ripubblicato. O forse il giorno in cui dovrò io stesso aprire una casa editrice al solo fine che queste pagine possano esistere e risuonare ancora.
Perché ciò che é scritto rimane e ciò che rimane, un giorno, forse non oggi e forse nemmeno domani, venendo letto, potrà forse essere una possibilità per cambiare.
il cartaceo non si limita ad essere un compagno di vita che registra la successione di attimi di chi lo legge creando una relazione con la sua memoria, ma può essere sorpresa, un incontro insperato, un ritrovamento immenso quanto l’ultimo ritrovamento archeologico.
Il segno di un pensiero, il segno di una vita che ci può far comprendere la nostra o incluso criticamente ripensare alla nostra rimettendola in gioco.
Molti mi parlano della “comodità” di avere tutti i libri che si vogliono in una tablet.
Io non solo son stanco di questo mondo tecnologico-digitale, stufo di schermi retro-illuminati, di apparati che si rompono con una caduta, di opere d’arte spiaccicate da foto digitali su profili Instagram o Facebook, da musica compressa in file che non pesano nulla, da concerti mandati in onda su YouTube e attori di teatro venduti alle serie tv o scrittori costretti a fare i giornalisti da Blog, ma trovo in questa trasformazione la morte della conoscenza fatta di tempo e presenza.
Perché ricordo cosa una volta era la lettura, il teatro, la musica, le opere d’arte. Ricordo il riverbero delle voci nelle sale, l’odore della polvere, il fumo delle sigarette e della pipa di mio zio lasciata a fumare sul posacenere sopra il pianoforte, l’aroma dei caffè, il sussurro del vicino di sedia, il vecchio che s’incazza ed urla contro l’attrice sul palco per uscire dalla sala infuriato; ricordo l’odore del sudore, la birra, le lacrime emozionate, la pelle delle opere e la pelle d’oca, l’odore dell’erba e del mare mischiarsi con il suono delle pagine sfogliate. L’arte vissuta e la gratitudine per quella sorprendente meraviglia di poter trovarsela tra le mani senza averla cercata. Un accadimento o forse solo un caso del destino.
La concretezza di ciò che é corpo fisico, tangibile. Un mattone parte dell’edificazione della nostra mente e del nostro sapere, in definitiva della nostra anima.
Una cosa reale che non si può spegnere o far scomparire dai motori di ricerca con un click. A volte cerco tramite il web dei brani che avevo letto o ascoltato e che spesso non son in grado di ritrovare come fossero evaporati o semplicemente come se il motore di ricerca avesse scelto per me altri “contenuti”. I libri invece rimangono fedeli sui ripiani della libreria pronti ad essere toccati ancora. Se vuoi far scomparire un libro devi compiere un atto di violenza: non basta un click o un un algoritmo, lo devi bruciare e bruciare tutte le copie. Perché finché ne rimarrà anche solo una questa verrà letta. E ci sarà ancora una possibilità.
Paolo Maggis