Enrico Macioci autore del romanzo Tommaso e l’algebra del destino uscito di recente per Sem Edizioni, regala a Satisfiction l’inedito intitolato La scarpa. Un racconto dove in un’atmosfera quasi surreale si susseguono nella notte inquietudini scaturenti da una visione (reale, fantastica?) e dove trovano spazio tutti gli interrogativi del protagonista, Marco, alle prese con un nodo da sciogliere. Un mistero che si palesa in una sagoma alta, altissima, che attira la sua attenzione diventando presenza reale ad occuparne i pensieri. Si trova sulla strada, è notte, non ci sono auto di passaggio “solo calma e buio e il candido squarcio lunare”. Fissa il muro, Marco, della piazzola di sosta dove ha creduto, pur soltanto per pochi istanti, di vedere una persona “altissima e nuda” nel tentativo di celarsi al riverbero dei fari. Poi compie un atto “più prossimo alla follia che al raziocinio”. La scarpa è un racconto dove convivono tensioni e affanni, dove le considerazioni sulla verità portano il lettore a vivere un costante stato di allerta e la scarpa gettata in un cestino dei rifiuti della piazzola di sosta è il segno di un incontrovertibile “passaggio”. Interrogativi pressanti, di un protagonista in preda a sospetto e preoccupazione, che tengono il lettore col fiato sospeso fino alla fine, una narrazione condotta con formidabile ritmo e maestria da parte di un autore abilissimo nell’incantare e raccontare non solo i fatti, ma soprattutto l’animo umano. Ci sono i fantasmi qua a fare capolino tra le pieghe della mente oppure no, forse sono proprio presenze quelle di questo racconto che si aggirano furtive nella notte in cerca di una verità che non può essere svelata.
Silvia Castellani
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LA SCARPA
Poco dopo aver sorpassato il camion, percorrendo una curva larga e in leggera pendenza, Marco illuminò coi fari una piazzola di sosta e gli sembrò di vedere un corpo alto (troppo alto?) e nudo stringersi al muro, accanto al cesto dei rifiuti. Se fu l’atteggiamento del corpo – l’atteggiamento difensivo di chi si nasconde prima di fuggire – o la statura esagerata o la pallida nudità della carne sulla tenebra del muro, o se fu invece la semplice curiosità non avrebbe saputo dirlo; in ogni caso mise la freccia e accostò lungo la corsia d’emergenza un centinaio di metri oltre, tirò il freno a mano, azionò le quattro frecce e lasciando il motore acceso smontò dall’auto. Un atto più prossimo alla follia che al raziocinio, lui lo capiva bene; ma sentì di doverlo fare ad ogni costo e lo fece.
L’aria fresca gli accarezzò il viso. Il camion saliva lento, un grottesco dinosauro nella limpida notte primaverile; e i suoi fari rischiararono per pochi attimi la piazzola. Però Marco da dove si trovava, per quanto aguzzasse lo sguardo, non distinse nulla. Attese che il camion gli passasse innanzi, mettendosi per precauzione dietro l’auto, accostò al guardrail. Da sotto il ponte saliva un odore umido di foresta e un altro meno buono, dolciastro e nauseante, come di residui abbandonati in un angolo a marcire. Il camion transitò, il frastuono crebbe e scemò, e così le tracce rosse dei fanali di coda; quindi il camion imboccò la galleria e non rimase che il buio. Marco pensò che il camionista doveva averlo notato per forza, ritto dietro l’auto ferma coi lampeggianti accesi, e se ne sentì rassicurato. Io non conosco lui e lui non conosce me ma lui mi ha visto, si disse Marco, quasi che ciò rappresentasse un’importante verità cui aggrapparsi. S’avviò.
La piazzola riposava nel sussurro della selva incombente. Si udiva lo scroscio monotono di una cascata. Le montagne formavano un serto roccioso e più sotto mareggiavano i boschi, punteggiati dai lumi delle case. Le case distavano pressappoco un’eternità. Una chiesa romanica galleggiava a mezza costa nel fiotto arancio dei lampioni, più o meno dove finiva la vegetazione. Somigliava a un giocattolo dimenticato. Nessun veicolo saliva o scendeva. A Marco parve che qualcosa si spostasse dalla piazzola in direzione del guardrail che separava le due corsie dell’autostrada. Strizzò gli occhi e adesso non c’era niente. Accelerò il passo, eccitato e spaventato in egual misura. Dietro di lui l’auto borbottava. La luna si alternava al buio. A Marco venne in mente una scacchiera e poi il gioco della dama; di lì pensò al gioco delle tre carte, cercate la regina, dov’è la regina?
La piazzola era lunga trenta metri e larga dieci. Tenendo d’occhio l’autostrada Marco raggiunse il muro dove aveva intravisto la sagoma nuda (nuda?). Per qualche strano motivo desiderò toccare il muro ma non ne ebbe il coraggio. Allungò la mano e la fermò a pochi centimetri dalla superficie. Pensò che non voleva insozzarsi, anche se il muro sembrava pulito; e pensò che non voleva scottarsi, anche se il muro era senz’altro freddo. Controllò il cesto dei rifiuti illuminandone l’interno con lo schermo del cellulare: una lattina di Coca Cola e una di Sprite, una bottiglia di birra col collo rotto, bicchieri, piatti e forchette di plastica, un cartoncino di succo di frutta con la cannuccia infilata, l’incarto di un Magnum alle mandorle, una confezione di Ritz, un paio d’involti bianchi, una manciata di fazzoletti sporchi e in mezzo ai fazzoletti una superficie piatta, scura. Non capì di cosa si trattasse ma non se la sentì di ficcare le dita nel cesto per afferrare l’oggetto – e perché mai doveva mettere le mani laggiù? Magari i fazzoletti erano sporchi di sangue… Sangue fresco… Tuttavia si chinò il più possibile per avvicinare lo schermo del cellulare all’oggetto: gli parve una suola di cuoio. Sul cuoio spiccavano macchie nere e tonde – ancora sangue? Al centro della suola, proprio accanto al tacco basso, era incisa una scritta in caratteri troppo piccoli. Marco non avrebbe saputo indovinare di che taglia fosse la scarpa, e se fosse un modello maschile o femminile.
Udì un suono di passi oltre il guardrail che separava le corsie. Si voltò di scatto ma niente; allora imprecando si lanciò sull’autostrada, l’attraversò, scavalcò il guardrail, attraversò l’altra corsia e guadagnò la recinzione di metallo sul bordo della carreggiata: nessuno. Si rese conto di avere il batticuore e l’affanno senza alcun reale motivo e si domandò se non stesse impazzendo; le quattro frecce della sua auto, cento metri più su, lampeggiavano beffarde. Dal bosco un usignolo cantò, lacerando la stoffa notturna come una lama d’argento.
La recinzione, che lo sopravanzava di due spanne, gli diede un senso di trappola; guardò giù. Il balzo misurava almeno venti metri. Distinse una valle erbosa, con grandi alberi isolati, querce o faggi, su cui la luna riversava milioni di umide perle. Un sentiero si snodava a fondovalle, come un’arteria nel solco fra due seni. Lungo il sentiero scendeva a balzi una forma umana, ma nelle chiazze di luce e ombra risultava arduo seguirla. Tuttavia Marco avrebbe giurato che una forma umana si dirigesse con incredibile rapidità verso il bosco. Rifletté. Un maglio gli percuoteva il cranio. Rifletté comunque. Escluse che un uomo (o una donna) avesse potuto saltare; chiunque sarebbe morto, pure un acrobata da circo. Pure un animale sarebbe morto, se è per questo. Il problema è che la forma non apparteneva a un animale bensì a un essere umano (“un umanoide”). Marco strizzò di nuovo gli occhi. La forma non si vedeva (o non si muoveva) più, magari già celata nella foresta, magari rannicchiata ai piedi d’un faggio, magari… Possibile che abbia sognato?, si domandò Marco strizzando gli occhi una terza volta. Che abbia avuto una visione? Controllò l’orologio: le ventidue e quaranta. Non tardissimo. E lui non si sentiva affatto stanco. Triste ma non stanco. Pensò che chi è triste è di conseguenza stanco. Pensò che se non fosse stato così triste (tristissimo!) non si sarebbe fermato né sarebbe sceso dall’auto. Pensò che chi si ferma è perduto. Che la maggior parte della gente tende a non fermarsi perché tende a non essere triste e a non perdersi. Che la maggioranza dei passanti non usa le piazzole di sosta. Che le piazzole di sosta se ne stanno in disparte sul bordo della vita, in una dimensione periferica e deteriore, una dimensione in cui vengono espletati i bisogni fisici primari, in cui si mangia, si beve, si piscia, si va di corpo e ci si pulisce con mezzi di fortuna, accucciati, vergognosi, selvatici.
Marco staccò le mani dalla recinzione – che stringeva con forza tale da lasciarne il segno sui palmi – e riattraversò le due corsie. Nessuna auto di passaggio, solo calma e buio e il candido squarcio lunare. Tornò alla piazzola e fissò da vicino il muro su cui aveva creduto così vividamente (anche se solo per pochi istanti) che una persona altissima e nuda si premesse nel tentativo di celarsi al riverbero dei fari. Provava una grande paura, adesso; la paura di aver osato troppo, di essersi avvicinato troppo alla verità. Respingendo di nuovo la tentazione di toccare il muro tornò furtivo alla macchina. Fissando il ritornello balenante delle quattro frecce formulò un pensiero terribile: e se la forma fosse salita in auto mentre lui studiava la campagna? Se la forma lo attendeva nell’abitacolo, sul sedile posteriore o perfino al posto di guida? Si sarebbe sporta dal finestrino ghignando e la faccia che Marco avrebbe visto nella luce esile, la sua faccia… Accelerò. Indugiando rischiava di perdere il poco coraggio che gli rimaneva e di chiamare il centotredici; e cosa avrebbe raccontato ai soccorritori, in nome di Dio?
Dentro la macchina non c’era nessuno. Marco aprì il portabagagli: nessuno. Controllò fra le ruote e presso il tubo di scappamento: nessuno. Mentre compiva le sue grottesche operazioni gettava occhiate intorno. Il rombo della cascata echeggiava nella quiete silvestre come un monito paziente e inascoltato. Marco salì in macchina, tolse le quattro frecce, azionò la chiusura centralizzata, controllò lo specchietto retrovisore (evitando di soffermarsi sulla piazzola) e partì. Il cuore riprese un battito normale e il respiro rallentò, ma una sottile inquietudine continuò a sfiorarlo, come vecchi fili di ragnatela in una soffitta. Forse la mia inquietudine si deve alla nudità della forma che ho creduto di vedere, pensò. Alla sua nudità. Che ci faceva una persona nuda nella piazzola? Era un uomo o una donna? E il rumore di passi che ho sentito? E la sagoma che ho visto correre giù a valle? Ma l’ho vista davvero? E perché nel cesto dei rifiuti qualcuno ha gettato una scarpa? Marco si morse un labbro. Chi getterebbe una scarpa nel cesto dei rifiuti di una piazzola di sosta?, pensò. Spinto da quale bisogno? Cosa può indurre una persona a fermarsi e a gettare in quel dannato cesto una scarpa? E l’altra scarpa? Giaceva nascosta sotto i rifiuti? Oppure il proprietario si è disfatto di una sola scarpa? E perché? Sciocchezze!, pensò con furia. Assurde, ridicole sciocchezze! La malinconia mi dà alla testa, mi occorre una vacanza, mi occorre… Le macchie nere sui fazzoletti e sulla suola della scarpa erano di sangue?, tornò subito a chiedersi. Di che marca era la scarpa? Di che modello? E che importanza ha? Siamo tutti uguali in fondo a un cesto della spazzatura.
Mentre andava così riflettendo Marco si allontanò. Presto la piazzola distò da lui trecento metri, cinquecento metri, un chilometro, due chilometri, dieci chilometri. Distò la distanza che separa la fantasia dalla realtà o un incubo dal risveglio. Per un bel pezzo davanti alla piazzola non transitarono macchine. L’autostrada rimase deserta come il greto secco di un fiume prima dell’alba – quando tutte le belve, anche le più feroci, dormono.
Enrico Macioci