“Caddero le foglie. Il gelo d’ottobre bruciò l’ultima erba e
le ragnatele divennero fili di ghiaccio nel sole del mattino”.
James Still – L’albero delle uova.
Mi sono avvicinato a James Still (1906-2001) nello stesso modo in cui mi sono accostato ad Ernest J.Gaines: con estrema delicatezza. È stato un bene, poiché l’amore inspiegabile che mi ha colpito già dalle prime pagine è andato aumentando e quando mi sono inoltrato di molto nel viaggio, è stato gradevole constatare che in ogni racconto, quella verde vitalità iniziale, quella genuina forza contadina, come un baccello di piselli spezzato impazientemente tra le dita, era stata confermata.
Un uomo dignitoso, questo è stato James Still; un uomo che un giorno si accorse che avrebbe potuto raccontare delle storie fermando lo sguardo poco dopo davanti a lui, sapendo che un giorno le cose importanti sarebbero state le cose marginali, le cose della gente comune, di quella gente che “andava sempre a caccia, cercando negli angoli più riparati tra i ciuffi di falaschi e le cavità paludose, senza mai sprecare un colpo”.
E sebbene molte di queste figure, di questi uomini e di queste donne, si perderanno nell’oscurità dei campi, e i loro volti si attenueranno della nostra memoria come i loro nomi, le storie narrate si depositeranno dentro di noi e sempre si agiteranno come un tumultuoso oceano di parole sotto gli Appalachi.
Esce oggi per Mattioli 1885, con la traduzione di Livio Crescenzi e Marta Viazzoli, questa straordinaria raccolta di racconti dal titolo Le colline ricordano, di cui presentiamo un estratto in anteprima.
Edoardo M. Rizzoli
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Di seguito l’estratto dal racconto L’albero delle uova
Caddero le foglie. Il gelo d’ottobre bruciò l’ultima erba e le ragnatele divennero fili di ghiaccio nel sole del mattino. In quei giorni freddi raccogliemmo il mais, trascinandolo dal campo al granaio lungo il sentiero serpeggiante. I maiali scesero giù dalle colline dov’erano stati fino ad allora in cerca di cibo, e con il loro muso umido scavavano a fondo tra le file di patate. Papà andò a Blackjack dove rimase una settimana. Quando tornò a casa, nell’incarnato delle sue mani c’era polvere di carbone. Aveva lavorato quattro giorni nelle miniere, e ormai c’era una casa della società che ci aspettava.
“Ho dato la mia parola che ci saremmo trasferiti nel giro di tre giorni” disse Papà. “Abbiamo una nuova casa che aspetta solo noi, con due finestre in ogni stanza.”
“Non desidero altro che restare qui” disse Mamma, la voce appena un filo e piena di speranza. “Rimarrò qui con i bambini, e tu puoi andare giù da solo fino a primavera. Trasferirsi significa solo abbandonare tutto.”
In preda alla rabbia Papà sbatté rumorosamente gli scarponi l’uno contro l’altro. “Questa che stai dicendo è proprio un’idiozia” disse, la faccia paonazza. “Non intendo certo vivere come un vedovo, quest’anno.”
“Mi addolora trasferirmi di nuovo” disse Mamma, “ma mi sa che sono obbligata ad andare dove vai tu.”
“Dobbiamo muoverci giovedì” le rispose Papà.
“Quando abbiamo appena piantato le radici da qualche parte, ecco che dobbiamo sradicarle per andare a piantarle in terra forestiera” si lamentò Mamma. “Trasferirsi in continuazione è un’infamia. Sono tantissime le cose che odio lasciare qui. Odio lasciare il mio albero delle uova sul quale ho perso tanto tempo e pazienza. Mi sa che a trattenermi è il mio albero delle uova.”
“Non ho mai sentito dire un simile mucchio di stupidaggini” disse Papà. “Peccato che non faccia semi così da poter essere piantato di nuovo.”
Infine, sulle colline di Angus giunsero le piogge fredde, e le strade divennero molli e i solchi delle ruote più profondi. Per un po’ sarebbe stato impossibile trasferirci, sebbene Papà stesse sulle spine perché non vedeva l’ora di caricare il carro. Mamma sedeva davanti al fuoco, senza preoccuparsi d’impacchettare nulla, mentre la pioggia continuava a cadere nei giorni lunghi e lenti.
“La pioggia non ha mai fatto perdere una sola giornata di lavoro a un minatore” diceva Papà, facendo su e giù sul pavimento, non trovando pace.
“Dovresti inchiodare qualche tavola per fare una sorta di copertura per la tomba del piccolo” disse Mamma. Dalla soffitta Papà prese alcune tavole di noce e al riparo del fienile costruì una tettoia per la tomba, di cinque piedi di lato e con il tetto di scandole di castagno. Non appena il tempo schiarì la prima volta, la portammo su al Point.
Quando la pioggia cessò, la nebbia rimase appesa ovunque, e le colline divennero grigie e scure. Nei campi, gli steli sec- chi del mais pendevano di qua e di là. Gli alberi sembravano impregnati d’acqua e morti, e più alti di quando erano pieni di foglie. Una sera Papà smontò la stufa. Il mattino seguente la nostra giumenta fu attaccata al carro, e il cancelletto posteriore si chiuse davanti alla porta sul retro. Per colazione Mamma ci dette una patata al forno fredda, e poi iniziò a impacchettare i piatti. Alle otto in punto stavamo sulla strada per Flaxpatch, con Mamma che, seduta a cassetta accanto a Papà, si guardava indietro verso il Point dove stava la tettoia della tomba tra le robinie spoglie.
Arrivammo a Blackjack a metà pomeriggio. La montagna di scorie che torreggiava sul campo bruciava con la puzza acre delle fiamme oleose e una nebbia opaca e fuligginosa incombeva sul fondo del torrente. La nostra casa, vicinissima a una collina spoglia e nuda, era fredda e puzzava ancora di vernice, però aveva le finestre con i vetri, e Euly, Fletch e io corremmo in ogni stanza per guardare fuori. I vecchi vicini vennero a stringerci la mano, ma non c’era calore in quello che dicevano e nelle dita.
Dopo l’ultimo carico, una volta svuotato il carro, Papà andò a restituirlo, lasciandoci a preparare i letti. Tornò durante la notte, e nessuno di noi lo udì varcare il cancello.
Ci svegliammo quando si alzò il sole, sentendoci come se fossimo nudi ed esposti agli occhi di tutti dal momento che vivevamo in una casa con molte finestre. Uscimmo sul portico, da dove rimanemmo a guardare la strada piena di solchi. Gli uomini camminavano nel fango con le lampade al carburo accese sul berretto. Dopo poco Mamma uscì nel cortile. C’era l’albero delle uova. Le radici erano sepolte superficialmente nella terra umida accanto all’angolo della recinzione. Alcuni gusci si erano spezzati, altri erano caduti, lasciando in mostra i rami marroni del salice. Mamma si voltò e ritornò in casa. “Solo un vero uomo può essere un pazzo fatto e finito” disse.
© Mattioli1885
19 Novembre 2020