A Napoli, nei primi decenni dell’800, a tutti erano note le bizzarrie di Ferdinando Cacciacamularo, di già facoltoso profumiere da un’enorme voglia di fragola che gli ricopriva per intero il volto, la quale gli aveva procurato il soprannome di Faccia Rossa. Questi, tanto per dirvene alcune delle sue, per non tagliarsi più le unghie delle mani e dei piedi, se le era fatte strappare con le tenaglie dal maniscalco Eugenio Di Matteo e, durante l’atroce operazione, non aveva proferito un gemito, continuando a masticare una carruba; e anche, scontento del suo ombelico, se lo era fatto cucire dal chirurgo Nottola, così che, da quel giorno, la piccola cavità del ventre andò sempre soggetta a infiammazioni, infezioni e a perdite di pus. Ma le stramberie del Cacciacamularo non si fermavano a tali, definiamole, perversità. Quando i bambini ne deridevano l’aspetto, egli si portava le mani agli occhi, credendo di non essere più visto, e cominciava a cantare a squarciagola; oppure, sedutosi a questo o a quel caffè, si toglieva le scarpe e le calze e le annusava anche per ore, creando il vuoto attorno a sé; e ancora, allorquando trovava una prostituta compiacente, la pagava alquanto per poterle rasare ascelle e pube, per poi, i peli, metterli all’interno di cuori di pezza, che andava a appendere fra i voti esposti nella cripta della Basilica di San Gennaro.
Le autorità tollerarono i suoi atti per anni, nonostante le continue lamentele, perché Ferdinando, alla fin fine, non faceva male ad alcuno e, anche, perché aveva la protezione del Cardinale Balsamo, suo primo cugino, nonché tutore; ma i gendarmi del ricostituito Regno Borbonico, una volta caduto Napoleone, non poterono passare sopra a ciò che successe la notte del 12 febbraio 1823.
Era un sabato di tempesta di vento e acqua, così che il mare Tirreno scaricava coi marosi le sue più celate collere, quando il Cacciacamularo, all’ora ottava, entrò nella Taverna del Goffo, posta a ridosso del primo porto, in Calata Marinella, e ivi assoldò, per un lavoretto particolare, tre ex galeotti e un ricercato, da poco rientrati in Napoli, per l’esattezza il Tamarro, già condannato a due anni di lavori forzati nelle zolfatare di Caltagirone, a causa di un furto con scasso, l’Esposito, litigioso e violento, il Contrerra, borseggiatore di destrezza, e il Lopez, assassino di origini sardo spagnole, e così, una volta avuto il loro assenso, da quelli si fece poi seguire, sotto la pioggia battente, fino al suo palazzetto, sito a ridosso delle mura del Conventello di Santa Cecilia, dove li invitò a accomodarsi per quindi condurli nel saloncino. E proprio in centro a quell’ampia stanza ovale, priva di arredi e mobili, ma illuminata da alcuni candelieri a più braccia, stava un grande cubo di legno finemente lavorato con intarsi dorati, rappresentanti stelle cosmogoniche, dodecaedri, motivi a scacchiera, pentagoni, vasi ermetici, saette, e altro e altro ancora; oggetto nel vero fantastico, che emanava luce e non presentava alcuna visibile apertura.
Non vi dico gli occhi che fecero i masnadieri, che il Contrerra, il più acuto della compagnia, subito domandò al profumiere cos’era e da dove fosse arrivato. Ferdinando gli rispose con sostenuto orgoglio: “…è il Tabernacolo della Luce, e proprio in questo punto, ieri notte, d’incanto, si è venuto a materializzare, dopo essere stato a Gerusalemme, a Babilonia, ad Alessandria d’Egitto, in Tracia, a Bisanzio, a Norbona e fino in Persia e in Cina… almeno così mi ha detto, allorquando l’ho interrogato” che a ogni nome di città o di paese i quattro spalancavano la bocca in segno di meraviglia, portandosi le mani alla fronte o a sfregare le orecchie.
Dopo una breve pausa calcolata, il Cacciacamularo continuò: “Ma non siamo qui per cicalare… datevi da fare! Imballatelo con quel telo, afferratelo con le vostre vigorose braccia che lo dobbiamo portare in Duomo, di modo che, domani mattina, tutta la città possa ammirarlo e chiedergli favori, che solo gli ipocriti e i bugiardi non potranno vederlo, e, per questo, si morderanno il fegato”.
L’operazione non fu delle più facili, perché il solido, di un metro e trenta a lato, pesava non poco, ma, una volta imbragato con il velaccio e le corde, in verità divenne più maneggevole, al punto che i cinque, nel sonno di Napoli, si avviarono giù per la Discesa delle Orfanelle, con il Faccia Rossa a guida della combriccola, il quale, calatosi nella parte del capo, a ogni rumore sospetto, o al passo pesante e allo sferragliare dei fucili e delle sciabole della ronda, perentorio ordinava agli altri di acquattarsi nell’ombra di questo o quel cantone, oppure nell’intrigo di questa o di quella viuzza. Capirete, quindi, che il raggiungere la chiesa divenne impresa nel vero titanica. Due piazzette si dovevano attraversare, e anche il quartiere della Sanità con il largo del Vecchio Lazzaretto. Ma il tutto riuscì, anche se ci scappò una mezza rissa, nei pressi della Fontana delle Grazie. Infatti, tre guappi che ivi stazionavano, protettori di detto territorio, celati nell’oscurità di un androne, attirati da quell’insolito trambusto, sbucarono davanti al manipolo, intimando di rendere ragione.
Furono il Lopez e l’Esposito a sbrogliare la situazione, esibendo, freddamente, le pistole e i coltelli che portavano alla fascia. Forse per il timore, per l’impari numero, o forse causa la pioggia che continuava a scendere a grondaie, i tre sfrontati decisero, con occhiate fra loro, di farli passare, non senza a lungo sputare e insultare il gruppo che, con concentrata e sufficiente indifferenza, di nuovo aveva ripreso a marciare. Infine giunti a una delle porte laterali del Duomo, quella che allora dava nella Sagrestia Grande, in essa si doveva penetrare per raggiungere il cuore del tempio.
Ci pensò il Tamarro al da farsi, mentre gli altri, bagnati al midollo, si ripararono assieme al cubo sotto a una volta, che il Cacciacamularo offrì a ognuno un sigaro delle Indie, una vera prelibatezza per quei tempi, così che, accesi, almeno si avesse la lusinga di scaldarsi dentro.
Nonostante le pietre viscide e instabili, il Tamarro raggiunse una finestrella, posta a due pertiche d’altezza, la quale, al suo premere, cedette, quindi, come un gatto, si calò nell’abisso e, passati pochi minuti, tolti i catenacci e smaneggiata la serratura, spalancò dall’interno l’usciolo, che i restanti, trascinandosi il bagaglio, fecero in un lampo a infilarsi dentro.
Nel Duomo regnava un’oscurità sepolcrale, rischiarata, qua e là, da serrate di ceri, che dal giorno avanti ancora ardevano, quale obolo rivolto a questo santo o a quella beata, e stagnava un silenzio che ampliava ogni respiro, anche il più flebile, che i quattro gaglioffi si sentirono un attimo in soggezione e smarriti, solo il Faccia Rossa pareva in pieno a suo agio, e aizzava gli altri tutto eccitato, che quelli si tranquillizzassero e si sbrigassero, perché non si era lì per rubare, o per fare altro di blasfemo, ma solo per il bene comune dei napoletani, da compiersi con sperticata reverenza e con trasporto passionale.
Spronati dalla dialettica del profumiere, i malandrini ripresero a darsi da fare fino a quando il cubo non trovò, in base alle direttive del Cacciacamularo, degna posizione; proprio nel mezzo della navata centrale, sotto la crociera portante; e, una volta liberato dalla tela, subito l’oggetto ricominciò a mandare bagliori, che sembrava un presepio di Natale, e non troppo si capiva se la luce provenisse dal suo interno o perché colpito da un qualche, seppur modesto, raggio luminoso esterno.
Ferdinando ringraziò la truppa e a ognuno dei malavitosi allungò dieci Borboni d’oro, che l’accordo era di sei, ma, felice, egli non badò a spese, dando fondo al portafogli.
I quattro, ancora visibilmente scossi, ma a loro volta contenti, lanciato un ultimo sguardo al fantasmagorico e affascinante aggeggio, incalzati dal profumiere, lesti recuperarono l’uscita, che il Faccia Rossa gli serrò alle spalle il portoncino, per poi correre, veloce, di nuovo al suo ‘amore’.
Non vi descriverò l’espressione che fecero i fratelli Rosario e Carmelo Barabba, vicesacrestani, quando per primi entrarono alla cinque nel Duomo e videro Ferdinando, proprio nel centro del luogo sacro, sospeso, in posizione seduta, a circa un metro e trenta centimetri dal pavimento, senza che nulla lo reggesse.
Lui, fissandoli, se la rideva di gusto, mentre quelli, fattisi duecento segni della Croce, corsero a lingua fuori fino agli alloggi dei chierici, dando l’allarme; quindi il De Vita, sacrestano capo, a sua volta sceso in chiesa per rendersi conto di persona del mistero, si attaccò alle funicelle che davano ai campanellini posti negli appartamenti dei sacerdoti, degli arcipreti e dei monsignori, così che, entro dieci minuti, circa trenta uomini, chi già vestito e chi ancora in vestaglia e pantofole, stavano attorno al Cacciacamularo il quale, sempre più divertito, se li guardava a uno a uno, per poi sbeffeggiarli in faccia.
Fu il gelido e inflessibile Don Silvestro Da Nola, predicatore gesuita, a parlare per tutti, ordinando agli inservienti che, in primis, si accertassero che ogni porta del Duomo fosse chiusa a dovere e che, in secundis, si controllasse che dalla Stanza del Tesoro nulla di prezioso fosse stato trafugato, quindi, rivolto a Ferdinando, sibilò queste domande: “Come riuscite a star seduto per aria senza che niente vi sorregga? È forse opera del demonio?”.
Il Faccia Rossa, rischiarandosi la voce e aggiustandosi la cravatta, rispose: “ln primis, sono una persona disinteressata, e, in secundis, sono privo d’invidia, per questo il mio corpo è leggero e fluttua”.
Subito, Don Silvestro, urlando: “È un maledetto trucco! È uno dei tanti scherzi dei vostri! A me non la fate! Vi conosco da tempo!”, diede disposizione che gli si portasse una canna spegnicandele. Agguantatala saldamente, nonostante gli sforzi, tentò più volte di farla passare sotto al profumiere, ma un qualcosa di invisibile glielo impediva, che il cerchio dei presenti si allargò e alcuni si misero anche in ginocchio a pregare.
“Vedete?”, gridò il predicatore, “come vi dicevo è un trucco!”, poi, cianotico, “non abbiate paura, tirate a terra quel senza Dio, che possa accertarmi su che cosa poggi le natiche”, quindi fra sé, “di certo è un marchingegno di vetro, che è difficile da vedersi. L’importante è che non sia un maleficio, questo ormai è appurato, così che nessuno scandalo ci possa travolgere, e noi si abbia il popolo e la situazione sempre dalla nostra”.
In malo modo il Cacciacamularo venne strattonato giù dal suo trono, che il mantello, ancora inzuppato, gli fu anche lacerato e un qualche scapaccione gli andò ad arruffare la capigliatura. Poi si passò all’indagine. Fu sempre monsignor Silvestro a procedere che, in verità, nonostante l’antipatia e la repulsione che trasmetteva, gli si doveva riconoscere un gran coraggio.
Lentamente, con le mani, egli riuscì a dare profilo all’oggetto trasparente, al punto da sentenziare: “È un cubo di gran peso”. E gli altri, rivolgendosi a chi di fianco, ripeterono a bassa voce: “È un cubo di gran peso”. Poi, trascorsi cinque minuti di tensione, il prete di nuovo parlò: “È un cubo pesante e levigatissimo, che pare laccato al tasto”; e gli altri, rivolgendosi a chi di fianco, ripeterono a bassa voce: “È un cubo pesante e levigatissimo, che pare laccato al tasto”.
“Proviamo a sollevarlo!”, ordinò il gesuita, “da poter sondare se anche il di sotto porta lato”.
L’operazione non risultò agevole perché, non riuscendo a vedere ciò che si voleva spostare, le dita scivolavano, si accavallavano, si strappavano, cercando un appiglio per fare leva, e le forze non si accumunavano e non si fondevano, di modo che uno veniva a spingere, mentre, dal canto avverso, gli si spingeva contro, oppure tirava, mentre, di fronte, altri, a loro volta, tiravano, o anche schiacciava, mentre, chi sotto, tentava di alzare. La situazione di stallo infine si risolse e il Faccia Rossa, per l’ennesima volta, scoppiò in una fragorosissima risata, che rimbombò come una cannonata, giungendo fino alle stanze del Vescovo Cipolla, del Cardinale suo cugino Balsamo, fino ai quartieri Spagnoli, fino a Capodimonte, fino al letto del Re, fino a quello della Regina, e fin sopra il Vesuvio, che tutta Napoli si destò in un medesimo istante e la cappa di nubi si aperse, lasciando spazio al sole nascente.
Dicevo, la situazione si risolse perché il Tabernacolo della Luce, così come di un colpo si era venuto a materializzare in casa del Cacciacamularo, così si smaterializzò in un baleno, che i sacrestani, i chierici, gli arcipreti, i monsignori si smusarono a vicenda, o caddero all’indietro a gambe levate, e fra questi Don Silvestro, che si andò a lussare anche due vertebre.
La vicenda, naturalmente, fu tenuta segreta, perché non conveniva ad alcuno raccontarla, da non passare per matto, però a Ferdinando non disse bene; di nuovo afferrato dal sinedrio dei preti, venne da questi, sempre per ordine del Da Nola, spogliato tutto nudo e poi ricoperto di paramenti sacri, collane di corallo, corone, orecchini, bracciali, appartenenti al Tesoro del Duomo, e quindi, una volta così conciato, furono chiamati, lestamente, i gendarmi, davanti ai quali i sacerdoti lo accusarono di demonismo, furto e sacrilegio.
Subito, il profumiere, fu portato via alla catena, come fosse un cane, mentre, un folto numero di fedeli, già attendeva, fuori dai portone principale della chiesa, l’apertura alla prima Messa.
Il Cacciacamularo, per Disposizione Regia e lettera del cardinale suo cugino, fu interdetto e rinchiuso nel manicomio criminale di Aversa, dove finì i suoi giorni facendo l’ortolano.
Anche il Tamarro, l’Esposito, il Contrerra e il Lopez non più dissero su quella storia; però, i primi due, cominciarono a darsi all’imparare a leggere e a scrivere e poi allo studio dei Testi Sacri, aiutati dall’avvocato leguleio Ciccimano, mentre il terzo s’imbarcò per Gerusalemme, e di lui si persero le tracce, e il quarto, il Lopez, tornò in Spagna, sotto mentite spoglie, quindi si recò nelle Americhe del sud, fino all’apice della Patagonia, spendendo il resto dei suoi giorni a inseguire e ad ascoltare voci, sussurri, accenni che, in un qualche modo, lo potessero indirizzare: “Là dove la luce appare e poi scompare”, come, in seguito, ebbe anche a dire lo scrittore Borges, o: “Là dove il Tabernacolo della Luce si manifesta”, come io, ora, vengo a scrivere qui, “ma non più quale mistero, o quale estensione di una mente assoluta, stanca delle falsità degli uomini, ma come certezza di un prossimo avvento… di una prossima venuta”.
Gian Ruggero Manzoni
Photo credits: Daniele Ferroni (foto in bianco e nero) e Maria Vitolo (foto a colori)