Con La speranza è l’ultima a morire, racconto di Antonia Moreale, inauguriamo questo spazio dedicato a “Scritture Urbane”, il nuovo Corso di Scrittura condotto da Angelo Orazio Pregoni e Paolo Melissi in collaborazione con Satisfiction. Il racconto è nato in seguito al primo incontro di laboratorio via web, che ha avuto come tema di riferimento il “thriller”.
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La speranza è l’ultima a morire
Erano parecchi anni che non si sentiva così vivo.
Da molto tempo non percepiva quel suono: un raschiare sordo, lento e strascicato. Ogni volta lo aspettava con la pazienza di un ospite, lo aspettava con stoicismo e quasi rassegnata speranza.
Gli anni trascorsi, per pensare, e le lunghe pause frammiste ad altri suoni, indistinti e sconosciuti…
Alcuni rumori si riproponevano con cadenza regolare, infiltrandosi ovattati e gorgoglianti; altri si imponevano bruscamente, come questo raspare agguerrito che ora insisteva a un palmo dal suo naso. Poi, una prima zampata di metallo agganciò una delle lunghe dita legnose che avevano invaso il suo soffice giaciglio e gli strappò la gamba all’altezza del ginocchio.
Si irrigidì nell’attesa elettrica del dolore, ne avrebbe assaporato i contorni laceranti (potendo), riesumandone le fasi da brandelli di memoria.
Niente.
Si mise in ascolto. Nessun messaggio dalle terminazioni nervose, solo un lieve ed insistente formicolio e la muta supplica di un arto fantasma che ora penzolava inerme: sospeso a tre metri da lui, afferrato via, sgocciolando un liquido melmoso.
Da uno spiraglio, si infiltrava insistente il respiro metallico: un misto di ferro, fumo, terra smossa e catrame. Annaspò, più per l’ansia incombente di quell’intrusione, di quell’afflato sconosciuto, che per una reale sete d’aria.
Delle conversazioni concitate che cicalavano sopra alla sua testa distingueva ben poco… una parlata stretta e nervosa ben diversa da quella indigena che masticavano i criminali a cui si era dovuto affiliare: la ligèra. Questi vocalizzi cantilenanti gli erano assolutamente forestieri, foresti come il suono grave e profondo di quell’artiglio di ferro che continuava a scavare.
Persino l’odore acre, dolciastro e oleoso che aveva imbevuto la sua vita, e il suo immobile vagabondare, era svanito, sostituito dal grigio saturo che ora lo trapassava, serpeggiando veloce per strisciargli dentro e annidarsi in ogni interstizio.
Anche lui cominciò a scavare: nella sua coscienza, cercando di ricordare la notte in cui il buio si era tinto di pece e la luce livida dei lampioni a petrolio si era dissolta in una pozza nera.
Ricordava il profumo stantio e grossolanamente imbellettato di Rina, detta La Compianta: perché, alla collaudata missione di “ristoro fisico” con cui intratteneva i suoi clienti, accompagnava spesso lacrimose allusioni sulla prestanza fisica di perduti amanti. Un triste destino pareva accomunare i soldati caduti sotto l’incanto delle sue forme generose: il caso voleva che nessuno di questi avesse mai fatto ritorno dal fronte…
Rammentava le urla ebbre di rabbia del marito di Rina, Ettore, che lo aveva preso a bottega e che poche ore prima gli aveva consegnato il primo salario come apprendista Furmagiatt.
Ricordava i tentativi di sfuggire ai fendenti barcollanti dell’Ettore, ricordava la sconcertante bugia della Compianta. Quelle ultime grida gli rimbalzavano nel cranio come lo squittire stridulo di un topo: “Mi è saltato addosso! Mi ha stuprata!”. Sullo sfondo di quella pantomima per rabbonire l’Ettore, rivedeva le palanche ancora fresche sul comodino a insinuare ben altri fatti.
Il primo colpo alla nuca glielo aveva assestato la donna mentre cercava di raggiungere la porta. Ricordava le imprecazioni e i calci e il dolore e il suo stesso respiro che si tingeva di ruggine e terra mentre tutto intorno il mondo taceva, zittito da un’asfissiante oscurità.
Un cigolio, uno sgretolarsi di legno e pietrisco e il grosso artiglio, infine, lo aggancia… Lo aggancia alle costole sollevandolo tra le fronde di una maestosa quercia come un pupazzo appeso per la pancia. Una marea di voci lo sommerge, lampi di luce, comandi secchi che misurano la distanza, e lui lì, indolente e inerme, incapace di giustificarsi o di tranquillizzare la folla di curiosi che, sempre più densa, si addensa nelle sue orbite.
L’acqua, un tram in lontananza, scale, muri imbrattati, sampietrini, archi di marmo, una madre e il suo bambino, gente che passeggia con la faccia mezza fasciata per un virus che lui non dovrà temere, che non lo ucciderà. Lui è già morto, morto da quasi un secolo, morto a causa della bugia della Rina, o per la gelosia dell’Ettore, o forse per la passione, per la voglia di formaggio: quel sapore di vita che lo aveva spinto a lasciare le sue radici per riposare tra altre radici. Sotto una vetusta quercia con cui condivideva il tronco svuotato.
Il giorno seguente tornò il silenzio: la solitudine che aveva imparato ad apprezzare… mentre alcuni insulsi pezzi di carta volavano come i discorsi, senza rendere omaggio alla breve carriera dell’anonimo Apprendista del Formaggio “Rinvenuto scheletro umano durante gli scavi per il recupero della Darsena, l’identità della salma resta sconosciuta”.
Antonia Moreale