Nel corso di questi ultimi anni, abbiamo assistito ad un moltiplicarsi considerevole delle monografie dedicate ai cosiddetti cult hero della scena Rock, le quali, non di rado, hanno contribuito alla riscoperta, se non alla scoperta tout court da parte delle nuove generazioni, di artisti che, seppur rimanendo confinati in una nicchia di popolarità underground, sono stati comunque in grado di scrivere pagine indimenticabili nella storia e nel costume del genere.
Questo fenomeno, fortunatamente, ha interessato anche l’Italia, dove alcuni coraggiosi pionieri dell’elettricità più selvaggia, dopo una militanza umana e artistica durata decenni, sono finalmente protagonisti di pubblicazioni che rendono il giusto omaggio a meriti acquisiti sul campo in un contesto umano e di possibilità, diciamolo, molto più complicato rispetto ai “soliti” Stati Uniti o alle terre d’Albione.
In Dalla parte del torto (Agenzia X, 2020, pp. 238, € 15), Domenico Petrosino, meglio conosciuto come Dome La Muerte, ci racconta insieme a Pablito el Drito la sua lunga avventura sopra e sotto un palco, ma, soprattutto, ci consegna una picara perla di storia su una scena, quella appunto del rock italiano non mainstream, che non si finisce mai di conoscere e apprezzare.
La Muerte, noto soprattutto come chitarrista e cofondatore dei seminali Cheeta Chrome Motherfukers nella seconda metà degli anni Settanta e poi come la sei corde degli altrettanto storici Not Moving (oggi Not Moving LTD) nel decennio successivo, ci guida nei meandri di un’esistenza funambolica che ha come quinta scenografica non certo le luccicanti colline di Los Angeles o i cieli grigi e densi di Londra, ma, quasi sempre, i colori un po’ anonimi (ma molto più caldi per molti di noi) della provincia italiana. A partire da quelli che coloravano i dintorni di Pisa quasi mezzo secolo fa, quando già il semplice passeggiare per strada con lunghi capelli a lambire la schiena o indossare un certo tipo di giacca di pelle potevano metterti nei guai. A maggior ragione se eri figlio di un divisato e i taciti “costumi” dell’epoca ti avrebbero imposto ben altro contegno per non recare disdoro all’onore paterno.
Ma certe vocazioni, si sa, riescono a vincere qualsiasi temperanza e magari si manifestano attraverso l’imperscrutabilità di un banale accidente, nella fattispecie una fastidiosissima scoliosi che, a causa di una necessaria ingessatura per essere curata, impedisce ad un aspirante trombettista di accumulare abbastanza aria nei polmoni e lo spinge a gettarsi sulla chitarra. E poi la scoperta di Hendrix, dei GranFunk Railroad e soprattutto del punk, che nella Piazza Garibaldi del capoluogo toscano ha il potere di accomunare in un risicato quadratino di spazio un drappello di ragazzi per i quali ogni giorno si trasforma in un’occasione per conoscere qualcosa di nuovo di sé e per sperimentare sulla propria pelle la difficoltà di allargare gli orizzonti, per immaginare un futuro diverso da quello sempre tristemente prospettato in classe o a casa. Ecco allora aprirsi davanti agli occhi spazi completamente inaspettati e, soprattutto, comparire un’esigenza di esprimersi in un modo personale, non allineato. Magari dentro pollai trasformati in sale prove o in scalcinati cine-teatri dove, non di rado, sei costretto a smettere di suonare perché lo sparuto pubblico presente non capisce cosa stai suonando o qualcuno arriva a staccare la corrente.
Il racconto di La Muerte è per buona parte della prima metà del libro il racconto di un’Italia che oggi si farebbe fatica anche solo a immaginare. Un’Italia in qualche modo segreta ma davvero “in rete”, fatta di passaparola che senza un briciolo della potenza mediatica di cui si dispone nell’anno di grazia 2020, era in grado mettere insieme in tante piccole realtà sotterranee centinaia di giovani affamati di forme altre di contatto, di vita. Senza dubbio più genuine, senza dubbio meno irreggimentate. Da plasmare con le tasche vuote, ma con i cuori pieni e sempre, sempre pulsanti. Come quello del protagonista, che unisce al desiderio di diventare un rocker professionista quello di liberarsi dai retaggi imposti senza spiegazione, affrontando ogni singola occasione di socialità come un evento da non dover mai banalizzare. E, scorrendo le pagine di “Dalla parte del torto”, troverete tanti esempi di questa attitudine, non soltanto quando il nostro avrà la fortuna di incrociare la propria strada con quella di personaggi che hanno marchiato a fuoco il mondo dell’arte e della cultura del Novecento, ma anche quando, perso in qualche landa della sua regione o in giro per l’Europa, si troverà a confrontare la propria ricerca di senso e significato con quella di uomini e donne qualunque. Sarebbe naturalmente un delitto rivelare anche solo qualche nome o qualche particolare di questi incontri, come pure è doveroso tacere sulla celebrazione del rock and roll way of life che La Muerte ha sempre santificato. Basterà sapere che quella del chitarrista toscano è stata e continua ad essere una cavalcata nel wild side della vita che non potrà deludere in alcun modo coloro che si aspettano da un libro rock un “tributo” a certi canovacci esistenziali. Con la differenza però sostanziale di non creare mai una frattura tra eroe e lettore, ma di edificare un ponte empatico sul quale camminare insieme e dall’alto del quale, magari, riconoscere certi splendidi precipizi o respirare certa pulitissima aria buona. Ispirando la quale, forse, alcuni ricordi personali potranno cambiare sapore e diventare assai più dolci. Fosse anche per il sopraggiungere del rimpianto o dell’agnizione della propria innocenza perduta in un’Italia che troppo spesso ci è sembrata un po’ un ghetto senza avergli mai dato una vera possibilità.
Per il lettore giovane e appassionato del genere, questa storia viscerale e priva di gonfiature da hype narrativo sarà l’occasione per scoprire che anche dietro casa, nel buco di culo della provincia più estrema, ci sono certe meravigliose strade serpentinate da percorrere a tutta birra, senza che il mondo dei talent e della musica usa e getta possa guastarne la magnificenza.
Per il lettore più anziano e magari un po’ fiaccato dalle costrizioni dei tanti conti da far quadrare con lo scorrere del tempo, sarà un invito a prendere un bel respiro, chiudere gli occhi e guardarsi dentro. Non per scudisciarsi con la frusta spesso impietosa della memoria, ma per tornare a vivere anche solo un istante quei fantastici giorni “del vino e delle rose” (come direbbero i The Dream Syndacate) e sentirsi felici di esserci in qualche modo stati.
Domenico Paris