Autodifesa di Caino (Sellerio, 2019) è un libretto redatto postumo dalla nipote di Andrea Camilleri, Arianna Martellitti, contenente il monologo che sarebbe dovuto andare in scena il 15 luglio 2019 alle Terme di Caracalla. La morte dell’autore ha privato il pubblico di sentirsi giudice, per una volta, non di un fatto di attualità o di un arbitraggio altalenante in una partita decisiva per il campionato, ma di un fatto mitico: l’assassinio di Abele. Col linguaggio “camilleresco”, con questo italiano sicilianizzato che tanto abbiamo scorto nei libri del Commissario Montalbano, Caino si siede e, di fronte alla giuria di paganti, proclama la sua autodifesa. Il suo parlare, in realtà non costituisce nessuna discolpa, ma ripercorre i fatti della sua vita in una misticanza mitica che passa dal libro della Genesi alla letteratura contemporanea. Ci sono tutti: da Dante a Giordano Bruno, passando per Dario Fo ed Elie Wiesel. Tutti che parlano di Caino, della messa in atto del male insito nell’uomo. Mai nessuno di loro, tuttavia, ha mai chiesto all’autore del delitto primordiale di parlare di quanto avvenuto: Camilleri lo fa. Non solo chiede a Caino di parlare, ma, come una trasfigurazione giovesca, diventa egli stesso Caino. E non solo; diventa chiunque sia portatore di pentimento, diventa ognuno di noi quando ci rendiamo conto aver commesso un’azione di cui ci siamo pentiti.
Tutto parte dal concepimento dei due fratelli, entrambi gemelli di due bambine. Entrambi figli di un tradimento, perché, si sa, il progresso dell’uomo segue l’andamento ellittico della forma delle corna e per mantenere il sangue pulito, visto che tra Adamo ed Eva esiste una sorta di parentela, ancora non ben definita. Uno nato dalla tentazione, dal diavolo; l’altro dalla candida carnalità con un Arcangelo. Insomma uno predestinato al male, l’altro predestinato e basta. I cattivi natali sembrano segnare da principio la vita di Caino. Ed è proprio da questo punto in avanti che Camilleri fa empatizzare la giuria (che poi sarebbero i lettori) con colui il quale monologa la sua autodifesa.
L’umanità di Caino esce ora, quando parla dell’assassinio del fratello: se quest’autodifesa non giustifica e non scagiona (lungi dalle intenzioni sia di Caino sia di Camilleri) l’accusato, genera una considerazione nella giuria: il pentimento, palesato, sincero e sentito, attribuisce di per sé il diritto di una seconda possibilità? Pare che l’atto in sé altro non sia che il volere, esterno al fratricida, di un’attuazione, di una presa di materia dell’elemento maligno già insito nell’uomo. La considerazione a cui si viene spinti è un sillogismo, a questo punto: se il male era già insito, allora è stato generato con l’uomo. Quindi, chi ha creato l’uomo l’ha reso materia con quella componente immateriale maligna insita nell’essere stesso. Siccome colui il quale ha creato l’uomo pare essere l’Onnipotente, ciò significa che Egli stesso è il creatore del male e il diavolo, tentatore anche in questo caso (stando all’autodifesa di Caino) altro non è che la materializzazione dei sentimenti dell’uomo? Ossia, altro non è che la messa in azione della componente immateriale creata nel pacchetto completo etichettato come “Essere Umano”?
Camilleri decide di posizionare in questo brevissimo monologo un’infinità di spunti. Su se stessi, sull’umanità, sul concetto di giustizia (per cui sta nel lettore o nel “giurato” decretare la colpevolezza o meno di Caino) e sul concetto dell’”altro”. Attraverso questo monologo, il colpevole di questo reato, caduto in prescrizione qualche migliaio di anni fa, si avvicina talmente al contemporaneo del giurato da fare in modo che chi legge metta in discussione la punizione che lo stesso Creatore ha attribuito al fratricida. Indubbiamente, questo processo è figlio di un climax che parte dal pregiudizio secondo il quale è noto che Caino sia un assassino e Abele l’assassinato (che per la verità è così che sono andate le cose e lo stesso imputato non smentisce) al giudizio secondo quanto dichiarato da Caino stesso, che rimane sicuramente immutato, ma assume una sfumatura diversa. Passando attraverso la giustificazione dell’atto in sé, considerato come “legittima difesa”, dal momento in cui Abele fu il primo ad attaccare, a “omicidio premeditato” visto che dopo la ritirata della vittima Caino decise di sferrare il colpo mortale, il giurato attraversa una sequela di emozioni che nemmeno nei processi contemporanei si riescono a sentire.
In ultimo mi soffermerei sulla punizione divina ai danni di Caino: il contrappasso viene messo in pratica per la prima volta. In maniera più sottile di quanto Dante non descriva nel suo Inferno, l’assassino ora è costretto a girovagare senza mai poter essere ucciso e senza morire prima della settima generazione. Procederà, con un corno sulla fronte per essere riconosciuto da tutti, strisciando come fece Abele per sfuggire da lui dopo il suo primo colpo, sopravvivendo ai suoi figli e ai suoi cari. Vivendo col pentimento perenne, con lo scherno di tutti, come lebbroso riconosciuto per la sua punizione. Qui, l’immagine del lebbroso giustifica in qualche modo la credenza che la malattia fosse una punizione divina, visto e considerato quanto Dio decise di far penare Caino.
Il maestro non si smentisce. Più che nei gialli, questo monologo diventa letteratura in un attimo, attanaglia la mente, fa riflettere, mette in discussione qualsiasi pregiudizio, rende il lettore personaggio di una sorta di Romanzo di Formazione, lo fa crescere pensando e fa in modo che pensi per crescere.
Lorenzo Bissolotti