Anni Settanta, Repubblica Socialista di Romania. Basta molto poco ad Alina e Liviu, sposi giovani e insegnanti, per trovarsi nel mirino della polizia di Ceausescu e vedere la propria vita sgretolarsi.
Liviu ora puzza sempre di alcol, Alina viene seguita e minacciata ogni giorno, il loro matrimonio si è ridotto a pizzicotti e sguardi sfuggenti. Eppure, sotto la coltre onnivora della dittatura, qualcosa sopravvive: c’è ancora speranza in Alina, che si rifiuta di rinunciare a una vita normale; in Liviu, che resta quel ragazzo che lavorava gomito a gomito con lei sul Mar Nero; nella Romania, che trattiene con forza le radici contadine e pagane nonostante il dolore e la povertà portati dal comunismo. Qui entra in gioco la zia Theresa, una creatura tra l’umano e l’eterno che riconnette la protagonista con il folklore della campagna rumena e con riti magici a tratti troppo reali. Ammanicata con il potere, ma spiritualmente indipendente, Theresa fornisce ad Alina una scelta che la sconvolge e che, al contempo, potrebbe – lei sola – salvarla dalla rovina.
Il breve ma intenso romanzo d’esordio di Sophie Van Llewyn, scritto in lingua inglese, tra i finalisti del Women’s Prize del 2019, è crudele, acuto, dotato di uno stile sempre cangiante: prima persona, terza persona, eventi raccontati dalla fine all’inizio, sprazzi di impressioni ed elenchi. Ogni piccolo evento che porta alla rovina di Alina, e all’opportunità della rinascita, la scaraventa sempre più nella paranoia e insieme al suo modo di pensare cambia anche la scrittura (perfettamente replicata nella traduzione di Elvira Grassi).
La fuga del genero, inaspettata e gravida di conseguenze, e i sempre più frequenti incontri con la madre, soffocante e giudicante, rendono dissociata la narrazione, che come la vita di Alina si infrange e riflette nella storia riverberi suggestivi. La ricollocazione di Liviu e l’inizio dell’indagine a suo nome rendono irrevocabili le scelte compiute (anche innocenti, come il non aver denunciato una alunna per una rivista proibita), asciugando le parole e le emozioni. In cima a tutto, con strascichi che perseguiteranno la protagonista fino alle ultime pagine del libro, la violenza psicologica di un agente dei servizi segreti e della madre, che la fanno avvicinare sempre più pericolosamente al baratro della pazzia. Confusa, spaventata, infine disperata, Alina guarda a ogni minuscolo appiglio per cercare di ottenere una vita solo lontanamente vivibile.
Van Llewyn analizza con precisione gli effetti della dittatura attraverso Alina: prima è esterna, nelle figure della madre, della spia e a un certo punto del marito, infine diventa interna, interiorizzata. Il senso di colpa, il rimorso e il rancore diventano così grandi che, anche dopo la caduta del comunismo, faranno per sempre parte di lei.
Giulia Giaume
Recensione al libro Bottigliette, di Sophie Van Llewyn, trad. Elvira Grassi, Keller editore 2020, pagg. 232, € 16