Prende spunto dal modello proposto a inizi Novecento da Hermann Minkowski Spazio/Tempo piatto, silloge di Zara Finzi pubblicata sul finire del 2020 da Manni editori. Il matematico lituano, ma naturalizzato tedesco, parla di “spazio piatto” in una elaborazione teorica riguardante lo spazio/tempo nel campo della relatività ristretta. Quanto elabora non è proprio di facile assimilazione, ma riguarda il concetto di “gravitazione” che, quando risulta significativa, fa diventare lo spazio curvo, mentre quando è estremamente debole porta lo spazio/tempo ad appiattirsi. “D’ora in poi lo spazio di per sé stesso o il tempo di per sé stesso sono condannati a svanire in pure ombre, e solo una specie di unione tra i due concetti conserverà una realtà indipendente” affermava in un suo scritto.
Parte da qui il lavoro di Finzi. Lavoro che tende a piegare quanto dice Minkowski verso la situazione attuale di costrizione all’isolamento, al silenzio quasi claustrale, al raffreddamento degli affetti e alla restrizione delle affettività cui ci ha portato la pandemia. Scrive infatti l’autrice che i termini proposti dal matematico la«riportano alla situazione che abbiamo e stiamo ancora vivendo». Ci troviamo perciò davanti non a una forma poetica di derivazione scientifica, bensì a una poesia che tende alla riflessione filosofica anzi, alla riflessione tout court su noi stessi, su se stessi.
La porzione di tempo (straordinario, in ogni senso) che in questo frangente ci è stato dato di vivere, la sua apparente dilatazione, il suo essere «senza sorprese e senza fantasmi», è per Finzi quanto di più adatto a esprimere in poesia un ragionamento capace di parlare della stasi, dell’attesa a volte angosciosa prodotta dal suo immobile perdurare, del suo portato pronto a indirizzarsi verso il riscatto, la rinascita. Non si parla di fine in Spazio/Tempo piatto. Almeno, non nel senso totale, definitivo che gli eventi ci han fatto respirare e temere.
Per l’autrice il tempo della pandemia, che ha perso spigolosità e ha acquistato una forma smussata, liscia («alla fine non/c’è più niente di quadrato. gli/spigoli del tempo assorbiti dal/tutto rotondo»), è il tempo giusto per lasciare libero il pensiero di fluire senza sovrastrutture, per lasciar spaziare nuovamente vista e udito («camminano lievi/i pensieri cinti da bianche bende,/vanno per le stanze/odorose di pulito, la voce/sorride soave»), liberi di riprendere il proprio spazio.
I versi vengono così sfrondati da orpelli, da barocchismi, a restare è solo l’essenza della cosa descritta, della cosa pensata. Non si perde quanto accade dentro e fuori di noi, quello di cui si ha finalmente coscienza («bisogna uscire dal/cerchio se vogliamo vederlo»). Ecco perché le parole tendono a espellere apostrofi, maiuscole, improvvisamente si spezzano («alle sette suo/nano le campane. si»): seguono il fluire ininterrotto del pensiero, ne dichiarano la fragilità al pari dell’involucro umano che lo produce. Ma insieme a questo, Finzi dice di una riconquistata «libertà interiore, che nel gesto poetico si trasforma in libertà stilistica, in una pacificata tensione» come scrive Ranieri Teti nella prefazione. E tutto prende forma dal silenzio, dall’imposizione a fermare almeno parte delle attività umane, bloccare le nostre routine. La poesia dell’autrice, il suo sguardo che tende a infilarsi puntuale negli interstizi dei piccoli accadimenti interiorizzandone la potenza, nasce da lì, proprio come è accaduto al suo quasi coetaneo Cees Nooteboom per Addio. Ma non vi ritorna.
Nella cinquantina di testi che compongono la silloge, divisi dantescamente in tre sezioni (di cui l’ultima, intitolata Un dopo, evoca un tornare a rivedere le stelle), la libertà interiore è forse la luce che li rischiara, che li porta lontani dal ripiegamento cui la paura poteva costringerli, li mette lontani dal silenzio. È meraviglioso pensare a come il vuoto cui ci ha costretto la pandemia possa produrre un tale senso di inalienabilità dell’esistere, la coscienza che bisogna vivere finché si ha vita. Meraviglioso vedere come quello produca questa, in un continuo movimento di morte-vita, in una circolarità senza fine. Finzi lo afferma nei suoi testi, senza aver timore a mostrare le titubanze e le proiezioni in avanti di cui è fatto ogni nostro respiro nel momento storico che ci è dato in sorte. Afferma come sia imperativo categorico degli esseri umani neutralizzare il diavolo, che è la morte, dandosi da fare con la vita.
Sergio Rotino
Recensione al libro Spazio/Tempo piatto di Zara Finzi, Manni editori 2020, pagg. 72, € 13,00
Di seguito alcuni testi tratti dal libro
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sul far della luna, l
infinito, dove sembra che
tutto scorra come il
Po che se ne va
restando.
facciamo che siamo uno
dei 255 decessi del giorno. cosa
lasciamo?
una coppa alla prof. più forte, una
corona d’alloro poetica, la
prima lettera di Yves messa in
quadro, quella congratuloria del
preside, la
cartolina con Nostalgia
dipinta da ernilla alla
maniera futurista, la visita di francesco
per capire cosa di me
si è rotto.
tutto e niente.
più niente che tutto o
più tutto che niente
sarà difficile, dopo, ri
conoscere gli amici per
tanto tempo nascosti nell
ombra delle case.
i capelli: altri colori, altre
lunghezze, e l’espressione degli
occhi.
chi sei, chi eri, ci
vorrebbe la banca degli
odori per ritrovare il ricordo se
abbracciarsi non sarà
più peccato
alle sette suo
nano le campane. si
scompongono allora i nostri
visi dal fermo biologico
per rifarsi una verginità.
si aprono le finestre (a ciascuno un cielo
proporzionato) entra la letizia che
va incontro alla sera
siamo vivi dice
quel suono, torneremo
domani